“Agosto blu” di Deborah Levy è, come spesso le storie dell’autrice, un romanzo frammentario, in cui il tema del doppio fa da sfondo a ogni pagina. Una donna cerca (o perde) la sua identità e tenta di trovarla (o ritrovarla) in un viaggio che compie fisicamente – da Atene a Parigi alla Sardegna, passando da Londra nel periodo della post pandemia – e emotivamente, attraverso relazioni e introspezioni che si muovono tra passato e presente…

Ci sono due premesse in questa storia: una a che fare con un concerto incompiuto e una con una donna e il suo cappello.

Nella prima Elsa M. Anderson, la protagonista di questo romanzo, perde la sua identità, nella seconda, forse, la acciuffa.

Per chi la ammira suonare il pianoforte, Elsa è una persona ben precisa: una sorta di dea della musica, interprete magistrale di opere difficilissime, un tramite della purezza della musica per comuni mortali.

agosto blu di deborah levy

Elsa M. Anderson è nella maggior parte dei casi una grande pianista, conosciuta e affermata in tutto il mondo, una di quelle a cui succedono cose del genere: quando, prima di prendere un aereo, si ferma a suonare per un quarto d’ora il Concerto per pianoforte e orchestra No. 2 di Rachmaninov su uno Yamaha qualunque, una donna le si avvicina commossa e le regala dei girasoli. “C’era qualcosa nell’aria tra noi, come l’idea dell’amore. La dimensione di questo tipo di amore, di come lo percepivo io, era la tacita realizzazione del suo desiderio e del mio desiderio, e del desiderio di Rachmaninov, di trascendere il dolore della vita quotidiana”.

Agosto blu di Deborah Levy (NN, traduzione italiana di Gioia Guerzoni) è, come spesso le storie dell’autrice, un romanzo frammentario, in cui una donna cerca (o perde) la sua identità e tenta di trovarla (o ritrovarla) in un viaggio che compie fisicamente – da Atene a Parigi alla Sardegna, passando da Londra nel periodo della post-pandemia – ed emotivamente attraverso relazioni e introspezioni che si muovono tra passato e presente.

Elsa abbandona la sua vita di musicista quando non porta a termine un concerto. Una sera, alla Golden Hall di Vienna, lascia il palco a metà, un atto imperdonabile, perché non si riconosce più nella musica che stava eseguendo, fa una digressione e lascia il palcoscenico. Decide di smettere con la sua vita così come l’aveva conosciuta fino a quel momento.

Il romanzo inizia ad Atene, poco dopo che Elsa incontra una donna con cui ha un coinvolgimento emotivo molto forte, con cui sente una connessione intima, e le ruba il cappello. Porterà in giro quell’oggetto, insieme al ricordo/incubo del concerto interrotto, in ogni città in cui andrà, fino alla fine della storia.

Questi due elementi sono gli appigli di Elsa durante i suoi spostamenti, ma sono fragili e sembrano pretestuosi. All’inizio della storia la vicenda con la donna e il suo cappello sembra quasi una allucinazione, un momento vago, mentre il concerto lasciato a metà è un gesto inspiegabile. Nel momento in cui accadono questi due fatti sono per la protagonista strampalati, per lei è difficile trovarne ragione: l’unica cosa che le è chiara in entrambi i casi è che sono agganci profondi alla sua vita passata, strumenti di conoscenza a cui non aveva mai avuto accesso prima e che, suo malgrado, le daranno filo da torcere.

Nel romanzo, inoltre, diventano le porte che fanno entrare il lettore nel passato della donna, di cui conosciamo prima schegge poi tasselli sempre più precisi e per il quale Elsa stessa cerca risposte, quasi come conseguenza necessaria.

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All’inizio del romanzo Elsa si ritrova nella condizione di fuggitiva – la sua è una fuga emotiva – e mette distanza dalla sua vita londinese recandosi ad Atene con due amici, Max e Bella. Non è sola nel suo viaggio: lungo il libro si incontrano persone che fanno parte del suo passato e del suo presente e in particolare è chiaro che una di queste, Arthur Goldstein, il suo primo insegnante di pianoforte, è tanto fondamentale per la sua vita quanto distante nel momento in cui il romanzo inizia.

Ma non solo: a puntellare la storia, in ogni luogo in cui si sviluppa, ci sono una serie di personaggi secondari che rivelano a Elsa piccoli dettagli utili alla ricerca che sta compiendo e si legano a lei in connessioni più o meno profonde e di natura differente: in particolare, i ragazzi a cui fa da insegnante privata di pianoforte sono tutti giovani alla ricerca plateale di identità e che provano con la musica ad avere delle risposte precise.

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In questi casi Elsa, che diventa una “semplice” insegnante di pianoforte trova dei turbamenti che solo in parte riconosce: il suo rapporto con Arthur o con il pianoforte in generale è stato un rapporto totalizzante e unico, incapace di creare fratture in cui altre cose o altre persone potessero inserirsi. Per i suoi studenti, invece, la musica è una parentesi, un periodo di tempo da trascorrere e Elsa stessa una persona di passaggio, ma la donna riesce a capire, ricordando, il significato della musica per lei proprio grazie a ciascuna di quelle lezioni capitate quasi per caso.

Scrive Levy: “Alla prima lezione Marcus ci mise meno di cinque minuti a dirmi che si identificava con il genere neutro. Non sapeva se il pianoforte fosse il suo strumento ideale. Preferiva il violoncello, ma la cosa che preferiva in assoluto, più di ogni strumento, era il suo cane Skippy”; oppure: “Quando avevo la sua età non avevo nessun tipo di vita al di fuori del mio strumento, non c’era niente che mi interessasse di più. […] Dovevo accettare che esistevano motivi diversi per imparare a suonare uno strumento”.

Il tema del doppio, che fa da sfondo a ogni pagina di Agosto blu non è nuovo alla letteratura né al cinema e come in Vertigo (La donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock il doppio trova un suo compimento, narrativo e morale, anche nel romanzo di Deborah Levy succede e per Elsa non è detto che sia un momento piacevole, una conclusione felice, ma trova – e ci dice finalmente – cosa è successo quella sera durante il concerto, una sorta di verità spirituale che comprende molto dopo averla vissuta. C’è un distacco tra ciò di cui la protagonista fa esperienza e ciò che può dire di conoscere e il suo sapere non ha sempre agganci profondi: si esplicita, si mostra, esplode in qualche caso, ma senza una consapevolezza intima forte.

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Dopo il viaggio e alcune domande risolte Elsa rilegge le ragioni dell’abbandono del palco, dà loro un nome e può dire di averle infine capite e la domanda è quindi una: abbandonando il palco, Elsa stava lasciando sé stessa o la stava abbracciando? Aveva intravisto una strada nuova o semplicemente aveva in odio quella vecchia?

Lo stile di Deborah Levy è pieno di lacune e spigoli, ma anche di spazi ordinari che diventano glamour (le uova alla turca a Green Lanes, le piscine a Parigi) e conversazioni tra amici che possono vagare per il mondo, dalla Grecia agli Stati Uniti.

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“Il sole era andato avanti, doveva andare avanti, come dobbiamo tutti noi, e forse era questo che il sogno voleva comunicarmi. Una piccola auto gialla si fermò al semaforo. Dietro c’erano quattro lama. […] Che pace, pensai. Rimanere fermi per un po’, in un posto. Può persino passare un’auto con dentro quattro lama”.

L’autrice ruota attorno a questioni di genere e di potere, di eredità strettamente legata a identità e mancanza, temi che sono presenti anche nelle sue opere precedenti e che in Agosto blu vengono declinati attraverso le parole di Elsa, il suo percorso di scoperta e di consapevolezza freudiano, netto e senza sbavature. È in questi momenti che Levy si serve di Elsa per affermare delle cose, in modo aforistico, quasi divertito e allo stesso tempo inconfondibile per chi è abituato a leggerla.

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