Deborah Levy è una scrittrice inglese, ha scritto diverse opere per il teatro, dei romanzi ed è stata tre volte finalista al Booker Prize: a un certo punto le hanno chiesto un saggio, che è diventato il primo capitolo di un’autobiografia vivente, anzi un’Autobiografia in movimento, “Cose che non voglio sapere”: in poche pagine sono condensati tre Paesi diversi, e tante diverse vite che convergono in un unico passato, la voce che scrive e ragiona sul perché scrive…

C’è una bambina a cui tutti dicono di parlare a voce più alta. È cresciuta in Sudafrica, durante l’apartheid. Il padre, attivista politico, viene arrestato un giorno in cui, fatto più incredibile che raro, nevica a Johannesburg.

Deborah Levy è una scrittrice inglese, ha scritto diverse opere per il teatro, dei romanzi ed è stata tre volte finalista al Booker Prize: a un certo punto le hanno chiesto un saggio, che è diventato il primo capitolo di un’autobiografia vivente, anzi un’Autobiografia in movimento.

Questo primo capitolo, Cose che non voglio sapere, è in libreria per NN nella traduzione di Gioia Guerzoni. In poche pagine sono condensati tre Paesi diversi, e tante diverse vite che convergono in un unico passato, la voce che scrive e ragiona sul perché scrive.

Cose che non voglio sapere, Deborah Levy

Levy vuole rispondere alla stessa domanda che si fece George Orwell: Why do we write?

Lo scrittore si diede quattro risposte: Scopo politico, Impulso storico, Entusiasmo estetico, Puro egoismo. Nel cominciare, Deborah Levy parte da sé stessa. Dalla versione di sé spezzata che in una primavera molto dolorosa, in cui il semplice fatto di star salendo sulle scale mobili – o meglio, di farsi salire, perché è un’azione passiva – la fa piangere, decide di andare per qualche tempo a Palma di Maiorca. È un posto dove è già stata: da ventenne e poi da trentenne felicemente fidanzata, ed è dove tornerà da donna nel mezzo di un divorzio, con due figlie a casa. Scrittrice, ex moglie, madre lontana.

Per arrivare all’albergo in cui alloggia deve inerpicarsi su un sentiero ripido, condotta da un tassista semicieco. Lì inizia la riflessione: il suo essere una madre e scrittrice che si allontana dal consesso sociale, dal ruolo che dovrebbe avere. Trova una sorta di doppelgänger, la proprietaria dell’albergo. Che non si è sposata, non ha avuto figli: Maria ha scelto di costruirsi una strada alternativa, in un tentativo di fuga da quello che il patriarcato si aspetta da lei.

Cioè l’assunzione di determinate responsabilità e addirittura di un nuovo vocabolario: Deborah Levy continua a collegare quello che osserva a Maiorca a stralci della sua vita londinese, e oltre. Riaffiorano quindi le altre madri (molto borghesi) incontrate fuori da scuola, al cui lessico lezioso Levy dedica la stessa analisi profonda che dedica a un testo teatrale.

La lingua della vita e la lingua della scrittura combaciano, una prende ispirazione dall’altra e non sempre nella direzione che si darebbe per scontata. Le parole delle madri creano una storia, le indicazioni di regia di una drammaturga insegnano come vivere le emozioni.

Greta Gerwig potrebbe essersi ispirata a Levy quando ha scritto l’ormai celebre monologo di America Ferrera in Barbie: la scrittrice ragione infatti su quello che ci viene chiesto, essere passive, ma ambiziose, materne ma cariche di un’energia erotica, disposte al sacrificio ma soddisfatte. Essere donna è l’obbligo di tenere insieme opposti che forse non ci interessano nemmeno (non in questi termini, almeno), sentendosi in difetto per qualcosa che non si riesce a identificare. Rispetto a Orwell, l’autrice donna non può permettersi il puro egoismo: anche la più egocentrica si sentirà in colpa a dire sempre “io”.

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Per trovare le ragioni della propria scrittura, Levy però torna ancora più indietro: prima della consapevolezza di sé come donna, c’è stata la consapevolezza di un mondo frammentato. La sua infanzia in Sudafrica è un’infanzia che cerca di dimenticare arrivata in Inghilterra: il cartello che ritorna nelle sue memorie, che vieta l’ingresso alla spiaggia alle persone nere, è un modo in cui il linguaggio invece di essere alleato è un nemico. In quegli anni le viene detto che deve alzare il volume della sua voce, e da lì l’impulso di scrivere le parole che non si sente di gridare.

Quando la famiglia lascia l’Africa, Deborah Levy trova un Paese che vuole disperatamente sentire suo, ma la famiglia intorno si sta disgregando: qui ragiona lucidamente allora su cosa significa la sua ambizione letteraria. Essere la ragazza triste che scarabocchia una sola parola sui tovagliolini di una tavola calda, tornare in una casa dove è impossibile trovare un barattolo chiuso. Un’esistenza sparpagliata si traduce nei coperchi lasciati in giro.

La dispersione ritorna più volte in questo breve saggio: Levy è in costante movimento, e si interfaccia con altre persone in fuga. Maria, verso l’esterno. Un uomo che incontra a Maiorca, che è emigrato molti anni prima e non ricorda come fare una zuppa decente alla maniera cinese. Sapere perché si scrive forse è sapere da dove si viene e a chi si appartiene. O forse è non saperlo affatto.

Mettere sulla carta è l’espressione di un desiderio e allo stesso tempo uno svelamento. Ogni domanda porta con sé una piccola rivelazione e ancora più domande: si scrive per sbrogliarle, ma è una ricerca destinata a durare all’infinito. Si scrive per nascondersi eppure quel nascondiglio è scomodo.

Deborah Levy si posiziona in questi incroci, richiama a sé le sue versioni del passato: sa che per tenerle insieme basta un filo, a cui può provvedere da sola.

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Fotografia header: Debora Levy nella foto di Sheila Burnett

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