Che la “Sapienza Fever” sia ormai esplosa non è una novità. Da qualche tempo, finalmente, i riflettori si sono accesi sulle pagine di Goliarda Sapienza (1924-1996) e i suoi libri (“L’arte della gioia”, il suo capolavoro, ma non solo) hanno finalmente conquistato il pubblico, portando alla luce il patrimonio sommerso dell’autrice e arrivando fino al grande (e piccolo) schermo. Ma di questo riconoscimento Sapienza non ha mai potuto godere in vita… Viaggio nell’esistenza tormentata e nelle opere “scandalose” di un’autrice morta povera e incompresa
Una sigaretta accesa tra indice e medio, una Muratti Ambassador probabilmente, un cappello di paglia, una borsa a tracolla con dentro taccuini e penne Bic dalla punta giallo scuro. Un vestitino leggero, poco sopra al ginocchio.
Goliarda Sapienza camminava per strada, scriveva dove poteva, appuntava parole a sensi. Sembrava leggere un presente invisibile tramite squarci di futuro che le si aprivano davanti e la lasciavano immobile, distratta, ma con un sorriso divertito.
Che Goliarda Sapienza abbia predetto il suo successo, la Sapienza Fever, ce lo auguriamo tutti perché l’editoria, così come il suo tempo, non sono stati clementi con il suo talento, con la sua persona, con tutto quello che avrebbe potuto donare. Molto più probabilmente quel successo se lo è augurato, l’ha sperato, ma non è mai riuscita a stringerlo tra le dita. In quella borsa ha sempre avuto più fogli scritti che vecchie lire e questo è il peccato più grande con cui, ad oggi, dobbiamo fare i conti.
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La madre la mise al mondo come un atto di consolazione
Goliarda Sapienza nasce a Catania nel 1924 da una madre leggendaria, Maria Giudice, sindacalista, giornalista, prima donna a dirigere la Camera del Lavoro di Torino, e da un padre, Giuseppe Sapienza, noto in città come l’avvocato dei poveri, socialista e avvocato battagliero. Cresce in una casa che è oasi di luce nelle tenebre fasciste (A. Pellegrino, Postfazione alla prima edizione, in G. Sapienza, Le certezze del dubbio), tra i vicoli di San Berillo, quartiere a cui Sapienza non tornerà più, se non di rado.
Il nome Goliarda non è un vezzo eccentrico, ma una cicatrice che i genitori le cuciono addosso dalla nascita: le viene dato in memoria di Goliardo, fratellastro ucciso in mare dalla mafia.
La madre ha quarantotto anni e la mette al mondo come un atto di consolazione per il marito. Cresce in mezzo a fratelli molto più grandi, una banda straordinaria, dice lei, in cui c’era di tutto: filosofi, leninisti sanguinari, socialisti utopici, anarchici, tutti atei di vocazione da generazioni.
Il padre non vuole che la scuola fascista la trasformi in una piccola italiana cretina, e così l’istruzione è tutta domestica. Ivanoe, il fratello-filosofo, è il primo grande amore: da lui impara la sete del pensiero e il gusto della parola. Da lui impara la lingua alta e la severità con cui farà i conti per tutta la vita.
Da Catania a Roma
Negli anni Cinquanta si trasferisce con la madre a Roma, dove frequenta l’Accademia di arte drammatica e grazie a una borsa di studio, diventa attrice apprezzata, lavorando con Visconti, Blasetti, Landi.
Impara dal cinema la scrittura, modifica la lingua che ha appreso dai libri tramite la macchina cinematografica grazie anche all’amicizia e all’amore con Citto Maselli.
I primi scritti
La prima volta che mette la penna su carta è per affrontare il lutto della madre.
Non voleva scrivere perché aveva intuito il terrore economico della professione, la condanna alla miseria della scrittura, ma non riesce a starne lontano.
A mia madre (pubblicata solo dal 2013 nella raccolta Ancestrale, Einaudi, a cura di Angelo Pellegrino) viene scritta in una notte come balsamo curativo per quel male troppo grande che le si agita dentro.
A partire dal 1958 si distacca dal teatro e dal cinema per dedicarsi interamente alla scrittura: inizia così a lavorare ai racconti che confluiranno in Destino coatto (pubblicato da Einaudi dal 2011) e a un romanzo, Carluzzu, rimasto inedito.
Lettera aperta, il suo esordio, resta un libro scandaloso per l’epoca
Il suo esordio letterario arriva nel 1967 con Lettera aperta, pubblicato da Garzanti e subito candidato al Premio Strega dal poeta Attilio Bertolucci e da Natalia Ginzburg.
Due anni dopo viene pubblicato Il filo del mezzogiorno (oggi edito da La nave di Teseo). Entrambi sono romanzi autobiografici potenti, scritti con uno stile tellurico e impudico, in cui Sapienza intreccia la propria esperienza personale con il linguaggio della psicoanalisi.
Lettera aperta resta un libro scandaloso per l’epoca, che non trova lo spazio che merita.
Il filo del mezzogiorno riceve qualche attenzione in più, ma Goliarda Sapienza si ritrova ai margini: la sua voce, troppo libera, troppo irregolare, continua a non trovare posto in un mondo editoriale ancora rigidamente codificato e profondamente maschile, in cui le donne possono accedere solo tramite il filtro degli uomini.
L’arte della gioia, il suo capolavoro
E poi, tra il 1969 e il 1976, scrive L’arte della gioia, il suo capolavoro.
Un libro su cui lavora per tutta la vita. Quando cerca di pubblicarlo, si scontra con un muro di rifiuti. L’agente, Erich Linder, ne riconosce la forza, ma non trova nessuno disposto a rischiare. I manoscritti si accumulano, i rifiuti anche.
Tra il 1979 e il 1981, L’arte della gioia viene respinto da tutte le principali case editrici italiane – Rizzoli, Einaudi, Feltrinelli, Editori Riuniti, Rusconi – nonostante il sostegno autorevole di Enzo Siciliano, di Adele Cambria e persino l’interessamento del Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
La pubblicazione non arriva, e neanche il successo.
Il successo che non arriva, e il carcere
Quando, a cinquantacinque anni, Goliarda Sapienza decide di rubare gioielli, lo fa consapevole: non solo per necessità o provocazione, ma per compiere un gesto che la mettesse faccia a faccia con il precetto della madre, con la realtà di una detenzione. Dentro Rebibbia, tra le compagne detenute, scopre una comunità viva, un tassello di mondo in cui ritrova più umanità che in molti salotti.
Ne esce rigenerata, con una lingua nuova, raccontando L’università di Rebibbia come l’esperienza che le ha rinvigorito il linguaggio e le ha restituito quella libertà interiore che era diventata rarefatta nel mondo esterno. Proverà a parlare della sua esperienza in un’intervista a Enzo Biagi, ma verrà fraintesa, osteggiata, quasi derisa.
Nel 1994, Sapienza viene intervistata da Anna Amendola e Virginia Onorato per la serie Soggetto Donna, prodotta dalla Rai. Nello stesso periodo, alcuni amici, tra cui Adele Cambria, tentano di farle ottenere il vitalizio previsto dalla Legge Bacchelli, destinato a figure di spicco della cultura, della scienza o dello sport in condizioni economiche difficili. Ma anche quel riconoscimento le viene negato.
Muore dimenticata e in povertà
Muore a Gaeta nel 1996, quasi dimenticata.
Ma il vero prezzo che Sapienza paga, più ancora del silenzio editoriale, è la povertà. Una povertà concreta, quotidiana, fatta di affitti non pagati, di quadri di amici venduti, di gioielli rubati. E poi una povertà più profonda, quella che nasce dall’essere fuori posto, fuori tempo, fuori dai canoni previsti.
In un’Italia letteraria dominata da canoni maschili, da editori cauti, da intellettuali prudenti, Sapienza rappresenta un’altra lingua, un’altra idea di letteratura e di corpo. Il mancato riconoscimento, non solo economico, ma esistenziale, è la condanna più dura.
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La riscoperta postuma, dalle librerie al grande (e piccolo) schermo
Solo dopo la morte, la sua memoria comincia lentamente a riecheggiare nel panorama letterario nazionale e internazionale. Nel 1994 una prima parte de L’Arte della gioia era stata pubblicata per Stampa Alternativa; nel 1998, finalmente, l’intero testo, con il sottotitolo Romanzo anticlericale, esce integralmente.
Sarà una editor tedesca, Waltraud Schwarze, a comprendere davvero la portata dell’opera e a pubblicarla in Germania tra il 2005 e il 2006. Da lì, il passaggio alla Francia per poi ritornare in Italia.
Nel 2008 L’arte della gioia viene pubblicato da Einaudi, in edizione curata da Angelo Pellegrino.
Intanto emergono altri scritti rimasti inediti che non avevano trovato spazio: Destino coatto, Io, Jean Gabin, i Taccuini pubblicati come Il vizio di parlare a me stessa, La mia parte di gioia, Ancestrale con le sue poesie, Siciliane, le tre pièces teatrali, Appuntamento a Positano, Elogio del bar.
Ogni nuova uscita aggiunge un tassello a quell’universo irregolare, ma coerente. Pellegrino, suo ultimo compagno e curatore, documenta anche la lunga serie di rifiuti editoriali, le lettere, le risposte mai arrivate, le valutazioni entusiastiche rimaste senza seguito: una storia emblematica dell’editoria italiana del secondo Novecento, dove il genio non basta, dove serve essere pubblicabili. E Goliarda Sapienza non lo era. O almeno non lo era per l’editoria italiana del suo tempo.
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A oggi, l’eredità di questa autrice è esplosa in molte forme diverse, dopo il successo letterario postumo i suoi lavori hanno raggiunto il grande schermo.
Dal 28 febbraio al 14 marzo 2025 Sky Atlantic ha trasmesso L’arte della gioia, miniserie in sei puntate diretta da Valeria Golino e Nicolangelo Gelormini, con Tecla Insolia nel ruolo di Modesta.
Ma la rivincita più sorprendente è arrivata con Fuori, il film di Mario Martone presentato in concorso al Festival di Cannes il 20 maggio 2025. Qui Valeria Golino interpreta l’autrice durante il suo periodo a Rebibbia. Il legame con le compagne di cella, al centro della narrazione, diventa un rito di salvezza, un respiro condiviso che rispecchia la sua ricerca di libertà e la sua capacità di mutare forma per rimanere a galla.
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