“Non ho mai creduto al potere curativo o catartico della letteratura, quanto piuttosto alla facoltà delle storie di aprire altre finestre, altre domande”. Silvia Pelizzari racconta su ilLibraio.it com’è nato il suo primo libro, il memoir “L’ultima volta che sono stata lei”, in cui racconta il trauma legato a un insulto ricevuto durante la sua adolescenza: “la solitudine, la sfiducia negli altri e la volontà di scomparire da quelle persone e dal paese in cui ero nata, Salò…”

La prima volta che ho scritto una storia avevo sette anni. Si intitolava Il pennarello arancione e raccontava di un pennarello triste e stanco che anziché divertirsi colorando disegni, se ne stava solo e pallido nell’astuccio. Era stato il preferito, era stato usato troppo, e poi era stato lasciato da parte perché non funzionava più.

Non ho pensato a quella storia per molto tempo, ma è tornata a galla mentre scrivevo il mio primo libro, L’ultima volta che sono stata lei (Fandango)*, perché mi pare premonitoria di un certo senso di solitudine che avrei sperimentato e vissuto col tempo, molti anni dopo quel tema in classe. E anche se il mio libro non parla strettamente di solitudine, quanto della distruzione e della ricostruzione di un’immagine e delle molte facce che può avere la verità, mi è sembrato interessante che una bambina di sette anni mettesse al centro della propria creatività il sentimento della tristezza, rispetto al rapporto con l’altro.

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Ho iniziato a scrivere questa storia nell’estate del 2022. Aveva un altro titolo e una struttura fragile, vaga. Sapevo solo di voler parlare della distanza che ho sempre sentito rispetto al paese in cui sono nata e cresciuta Salò – al punto da decidere, durante gli anni di liceo, di “scomparire”, o quanto meno di provare a farlo, dopo la maturità.

L’amo me l’ha lanciato un saggio di James Baldwin, A stranger in a village, che un’amica mi aveva spedito via mail, dopo una lunga conversazione notturna intercontinentale. Dopo averlo letto, avevo sentito un vuoto nello stomaco – nonostante il saggio di Baldwin parli di cose lontanissime da me: il corpo del popolo africano nella diaspora – al punto che sulla copertina del quaderno su cui iniziai a prendere appunti scrissi “A stranger in my village”.

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Da quel momento, la grana si è fatta più nitida, l’intenzione chiara. Ho iniziato a scavare per trovare il momento zero, il buco in cui si raccoglieva ogni cosa. L’ho trovato in un fatto molto preciso: il momento in cui, a quindici anni, ho scoperto un insulto rivolto a me sulla porta del bagno del liceo che frequentavo. Un insulto che poteva scivolarmi addosso, passare sottotraccia come molte delle cose che ci accadono durante l’adolescenza, e che invece si era infilato nella piccola crepa che aveva aperto da sola, senza più uscirne, e anzi, aprendola di più.

Un insulto che ha avuto impatto sul mio rapporto con il corpo, con il desiderio, con la fiducia nel prossimo e con gli altri, e che nonostante la crescita e l’evoluzione personale, riuscivo ancora a vedere in filigrana, nella mia vita adulta.

Volevo mettere su carta la storia di un dolore normale e indagare come una scheggia di apparente poco conto potesse ferire profondamente, al punto da ritrovarne segni e scorie anche molti anni dopo la fine della giovinezza.

Non solo: per me era importante decentrare la verità. Basandosi il ricordo esclusivamente sulla mia memoria, e sapendo bene che la memoria è spesso fallace, mi sono divertita a non mettere troppo al centro il mio punto di vista, provando invece a non fidarmi mai del tutto di me stessa, spostando la prospettiva, l’angolatura, girando continuamente lo specchio da me al fuori da me.

Un anno dopo è arrivata in aiuto la cornice della storia: un gruppo Whatsapp della classe 1983 per l’invito alla festa di classe dei quarant’anni. Tutto quello di cui volevo parlare con la distanza – la mia adolescenza, l’insulto, la solitudine, la sfiducia negli altri e la volontà di scomparire da quelle persone e dal paese in cui ero nata – si stavano manifestando nella prossimità: la possibilità reale di una serata con molte persone da cui mi ero volutamente allontanata.

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La presenza di una data per quella cena mi pareva segnasse anche la chiusura di un cerchio.

Quale migliore occasione per fare come certi bambini fanno con i loro giochi preferiti: aprire e guardare dentro, osservarne gli ingranaggi per capirne il funzionamento.

Per fare tutto questo, ho usato la letteratura. Molti libri mi sono venuti in aiuto; li ho cercati come fossero maestri attraverso cui farmi guidare, oppure sono arrivati a cercarmi. Sono stati una luce per vedere meglio e una lente per ingrandire le cose. Autrici e autori come Annie Ernaux, Joan Didion, Carolin Emcke, Melissa Febos, ma anche James Baldwin, Didier Eribon e perfino un neurobiologo, Andrea Levi, una psicologa, Elizabeth Loftus e uno psicanalista, Vittorio Lingiardi, hanno mandato segnali e creato una costellazione inizialmente solo mia, che spero trovi senso anche per chi leggerà.

Non c’è stata redenzione, alla fine, né riscatto. Non ho mai creduto al potere curativo o catartico della letteratura, quanto piuttosto alla facoltà delle storie di aprire altre finestre, altre domande.

Joan Didion diceva che scriveva per capire, non per guarire, e io credo che sia stato lo stesso per me. Ho scritto per capire, per trovare il coraggio di andare a quella cena di classe e per poter tornare a casa, sapendo che quella storia e quella scritta sulla porta continuavano ad esistere, da qualche parte, ma non avevano più potere su di me.

l'ultima volta che sono stata lei di silvia pellizzari libri ultime uscite settembre 2025

* L’AUTRICE – Silvia Pelizzari è nata nel 1983 sul lago di Garda e vive a Milano. È ideatrice e autrice di Tiresia, un podcast sulla letteratura queer (Emons Record, 2022); ha scritto articoli e racconti per diverse testate e riviste; ha co-diretto Finzioni Magazine e pubblicato racconti per riviste online e antologie, tra cui Brave con la lingua (Autori Riuniti, 2018) e Stasera faremo cadere il cielo (Zona 42, 2024). È inoltre socia della libreria Alaska di Milano e organizza eventi culturali.

Ora è al debutto nel romanzo con L’ultima volta che sono stata lei (Fandango), un memoir sulla sua adolescenza difficile.

Il telefono vibra nella tasca di Silvia – allo stesso tempo protagonista e autrice di questa storia – mentre guarda il menu di un ristorante: S. ti ha aggiunto al gruppo “40 anni”. Sulle prime non capisce la notifica: con S., ex compagna di scuola, non parla da anni, è una figura che appartiene a un’altra epoca, e il suo compleanno è già passato da un pezzo. Solo dopo un po’ si rende conto di essere stata invitata al ritrovo della classe ’83 di Salò, il paese in cui è nata e cresciuta. Io purtroppo non riuscirò a esserci risponde, poi cancella. Da questo messaggio, all’apparenza banale, comincia a tornare a galla tutta la vergogna, l’umiliazione, il senso di estraneità e pericolo degli anni delle scuole medie e superiori, a partire dal fatto traumatico che le ha segnato l’adolescenza e – forse – l’intera vita adulta: la scritta Silvia Pelizzari puttana trovata sulla porta del bagno del liceo.

Momento 0 che influenza tutta la sua vita, portandola lontana da Salò, dalle sue amicizie in una fuga ininterrotta verso l’altrove, che le permetta di scrollarsi di dosso una reputazione che le hanno cucito addosso. Ma quanto di quello che ricorda è reale, ed è possibile a distanza di anni fare pace con quello che ci ha ferito?

L’autrice nel suo debutto alterna i ricordi – veri o presunti – alle storie lette nei libri e viste al cinema…

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Fotografia header: Silvia Pelizzari nella foto di Alberto Gottardo

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