Le protagoniste di “Terrestre”, la nuova raccolta di racconti di Cristina Rivera Garza, sono due giovani ragazze che viaggiano, zaino in spalla e mano nella mano, per ribellarsi e conquistare ogni cosa, spinte da “l’altra fame”: il desiderio di migrare, di fuggire, attraversano piani temporali e città. Quello dell’autrice e storica messicana è un inno alla resistenza, in cui la scrittura non è mai solo rappresentazione, ma si fa gesto, movimento, atto politico…
Nel libro che le è valso il Premio Pulitzer, L’invincibile estate di Liliana, Cristina Rivera Garza raccontava la storia vera di sua sorella, uccisa nel 1990 a Città del Messico da un ex fidanzato incapace di accettare la fine di una relazione. Ne nasceva un memoir insieme politico e poetico: una ricerca di giustizia trasformata in atto letterario, in cui la scrittura diventava spazio di memoria e di resistenza contro la violenza di genere.

Con Terrestre (pubblicato da SUR, nella traduzione di Giulia Zavagna), Rivera Garza prosegue la sua riflessione sul corpo e sulla giovinezza, interrogandosi su cosa significhi essere donne in un mondo in cui ogni spazio va conquistato. Lo fa però con una nuova libertà, usando la parola come terreno di sperimentazione e come corrispettivo della libertà di movimento, d’azione e di voce che anima le protagoniste dei sette racconti che compongono il libro. Sono giovani donne che camminano, si spostano, attraversano confini e territori per conquistare spazio, identità e presenza. Ognuna di loro, verrebbe da pensare, potrebbe essere Liliana, se a Liliana non fosse stata tolta la possibilità di viaggiare. Così Terrestre – incurante dei generi e delle classificazioni, grazie alla voce unica e poetica della scrittrice messicana – trasforma la ferita in cammino e la memoria in terra da attraversare.

Rivera Garza ha più volte definito il suo ultimo libro come un esempio di non-fiction speculativa. I racconti nascono infatti da resoconti, interviste, ricerche d’archivio, fatti di cronaca e diari di viaggio: un materiale eterogeneo a cui l’autrice dà forma narrativa, spingendosi spesso verso la prosa poetica o l’esercizio di stile, mai però fine a se stesso. È il caso, ad esempio, del racconto I leoni non sono qui, costruito interamente in forma di negazione – dove la sottrazione del passato sembra aprire lo spazio per un futuro possibile.
Viaggio e tempo sono, di fatto, inseparabili da un punto di vista tematico. “Forse ogni viaggio è un modo di tornare all’infanzia”, afferma la protagonista del racconto Sole di un altro pianeta, mentre attraversa la Sierra Tarahumara con uno zaino in spalla e un’amica al suo fianco. A spingerle, come le altre ragazze di Terrestre, è il desiderio di fuga dal «dover essere», il bisogno di sottrarsi a un futuro che sembra già scritto. Viaggiare in solitudine, “senza tetto né legge”, affrontando i pericoli che ne derivano, è per loro l’unico modo di riappropriarsi della propria libertà e della propria identità, senza cercare “la benedizione di nessuno”. Le ragazze viaggiano sempre in coppia, mano nella mano, sotto l’egida dell’amicizia e della sorellanza. Viaggiano “contro la famiglia, contro ogni famiglia, contro la sottomissione obbligatoria delle madri e il puntuale autoritarismo dei padri”. Viaggiano per ribellarsi, per “cambiare ogni cosa“, e perché il viaggio le fa sentire invincibili, nonostante la fatica e le continue lotte per conquistarsi ogni millimetro di spazio, nonostante l’onnipresente violenza maschile.
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In Uccellacce – uno dei racconti più riusciti della raccolta – la coppia di amiche assume le sembianze di due giovani aironi che hanno imparato a camminare “perché l’uccelliera era più piccola di noi”. Le ragazze-airone esplorano il mondo da una prospettiva – per l’appunto – terrestre: provano vergogna per le proprie ali e, in fondo, cercano solo di essere come gli altri. A guidarle è il desiderio di migrare, quell’impossibilità di fermarsi che Rivera Garza chiama semplicemente “l’altra fame“.
E non importa se i loro colli sono fragili e le zampe esili, se la paura pesa sul petto e sulle piume: le ragazze-airone non si fermeranno mai. Alla fine prenderanno a volare, sollevandosi fino al cielo al proprio ritmo, “per verificare l’esattezza del nostro istinto“.
Ma ecco che torna il tema del tempo. Per vivere zaino in spalla, in una continua ricerca di sé, “bisognerebbe non crescere mai”. Nelle pagine di Terrestre aleggia la nostalgia della giovinezza, una giovinezza che è prima di tutto desiderio. “Eravamo molto giovani”, dice la ragazza-airone, “il nostro senso del tempo era distorto dal desiderio”. È proprio il desiderio la ragione per cui si viaggia: allontanarsi significa guardarlo negli occhi “come davanti a un precipizio”, ricordarsi che “il corpo esiste“. È un esercizio di concentrazione e di slancio: ci si innamora dei treni, dei finestrini sporchi, della terra secca, e al tempo stesso si teme di restare intrappolati fuori. Bambini per sempre.
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Il ritorno, infatti, è il viaggio più difficile, ma anche il più necessario. Solo attraverso la memoria possiamo davvero comprendere ciò che abbiamo vissuto. Il significato della pioggia, racconto che apre la raccolta, incarna perfettamente questa idea del viaggio come macchina del tempo: i piani temporali si sovrappongono, e una passeggiata sotto la pioggia incessante di Belfast nella primavera del 2023 può trasformarsi in una camminata per Città del Messico di molti anni prima.
È anche questo il potere della scrittura di Cristina Rivera Garza: senza nemmeno cambiare il ritmo del passo, si può passare da un angolo all’altro del mondo, dall’infanzia alla vecchiaia.
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La carica politica di Terrestre non è certo meno intensa di quella che attraversava L’invincibile estate di Liliana. È un inno alla resistenza, dove le donne fanno dichiarazioni “con il corpo” e affermano la propria presenza nel mondo. Ma è anche un invito a donare il proprio tempo, a cercare un incontro paritario con l’altro, a condividere energia e attenzione.
Nel racconto Lavoro sul campo prende forma l’azione di un movimento urbano popolare che pratica quella che viene definita una “solidarietà cosmologica“, un “femminismo intuitivo“, una politica ecologista e “solare”. Un movimento che, tuttavia, deve fare i conti con la violenza – una violenza che rimane sempre la stessa, cieca e sistemica – di fronte alla quale non resta che continuare a ribellarsi e a resistere.
In Terrestre, come in tutta l’opera di Cristina Rivera Garza, la scrittura non è mai solo rappresentazione: è gesto, movimento, atto politico. Ogni racconto si fa corpo in cammino, testimonianza della possibilità di continuare a vivere e a dire, nonostante tutto. La lingua di Rivera Garza si muove insieme alle sue protagoniste: attraversa generi e registri, mescola cronaca e poesia, diario e visione, restituendo sulla pagina la materia viva del mondo e del tempo. Terrestre è un libro che non chiude, ma apre – alla libertà, alla relazione, alla speranza di un futuro ancora da inventare, passo dopo passo.
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Fotografia header: Cristina Rivera Garza nella foto di Juan Rodrigo Llaguno