Il dibattito su scuola e lavoro ha le sue “mitologie”. Una delle più consolidate riguarda l’alternanza scuola-lavoro… Su ilLibraio.it il commento controcorrente di Lorenzo Cavalieri, in libreria con “Il lavoro non è un posto”: “Per le aziende che devono assumere il problema non è l’ignoranza di una norma, di una procedura, di un software. Il problema è trovarsi di fronte a persone che non hanno elasticità mentale, creatività, imprenditorialità…”

Alternanza scuola lavoro. Tra mito e realtà

 

Il dibattito su scuola e lavoro ha le sue “mitologie”. Una delle più consolidate riguarda l’alternanza scuola-lavoro.

La vulgata dice:

I giovani italiani al termine degli studi non hanno la più pallida idea di come funziona la “vita vera” nelle aziende;
Le aziende hanno difficoltà ad assumere i giovani neolaureati o neodiplomati perché non sono preparati concretamente alle sfide del lavoro;
I giovani italiani studiano soltanto e non sanno fare niente;
All’estero (soprattutto il mitico modello tedesco) la scuola insegna “i mestieri” e questo spiega il differenziale di occupazione giovanile tra noi e altri importanti stati europei;
Per entrare nel mondo del lavoro bisogna in qualche modo averlo “annusato”, aver fatto esperienza anche solo del “contesto ambientale”.

Siccome queste affermazioni sono considerate verità di fede (e tali sono perché non poggiano su riscontri oggettivi e dunque non sono “popperianamente” falsificabili) la politica si adegua: ministri e assessori di scuola e lavoro si sbracciano per vendere le loro conquiste sul tema: “Più alternanza scuola-lavoro per tutti”.

Così il nostro governo del fare ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo e qualche mese fa ha varato l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria: nell’ultimo triennio scolastico 400 ore “on the job” negli istituti professionali, 200 ore “on the job” nei licei.

Premetto che negli ultimi anni amministratori locali, aziende e presidi hanno confezionato progetti di alternanza scuola-lavoro meravigliosi dal punto di vista didattico e fruttuosi in termini di ritorno occupazionale.

Ovviamente ci sono anche fior di esempi di segno opposto. Tanta carta di progettazione, un po’ di marketing per la scuola e l’azienda di turno, esperienze di lavoro assolutamente inutili, tanto tempo perso.

Il tema dell’obbligatorietà cambia i termini del discorso. Mettiamo rapidamente in fila alcuni riflessioni di natura organizzativa:

Qualcuno (nella scuola e nelle aziende) dovrà progettare;
Qualcuno (nella scuola e nelle aziende) dovrà seguire gli aspetti burocratici e di controllo;
Qualcuno (nella scuola e nelle aziende) dovrà occuparsi di sicurezza e di trasporti;
Qualcuno (nella scuola e nelle aziende) dovrà fare da tutor;
Qualcuno (nella scuola e nelle aziende) dovrà rendicontare;
Qualcuno (nella scuola e nelle aziende) dovrà inventarsi un raccordo sul progetto “on the job” e l’esame di maturità.
Insomma un enorme sforzo di tempo e di risorse, pubbliche e private (basteranno i 100 milioni annunciati dal governo?). E qui scatta la domanda: il gioco vale la candela?

Prescindo da riflessioni di equità (lo studente di Crotone avrà le stesse opportunità di fare una bella esperienza di quello di Vimercate?) e vado al punto. Cosa chiede il mercato del lavoro ai giovani? Che sappiano utilizzare un software? Che sappiamo eseguire una determinata attività a regola d’arte? Che sappiano mettere le mani su una certa macchina? No. Questo è ciò che le aziende chiedono alle agenzie per il lavoro, quasi sempre per esigenze di breve termine. Non è ciò che farà la felicità professionale dei nostri ragazzi.

Nell’era della robotica e della competizione mondiale di manodopera questi lavori “di esecuzione” sono approdi instabili, sono l’anticamera della continua precarietà malpagata. I nostri ragazzi troveranno la felicità professionale unendo alle competenze tecniche le competenze soft: pensiero critico, capacità analitiche e relazionali, capacità di decidere, di comunicare, di inventare soluzioni.

Ecco perché una vera riforma di “buona scuola” dovrebbe far saltare la distinzione di sapore ottocentesco tra licei e istituti professionali. Studiare di più, non studiare di meno. Il problema della scuola italiana non è che “c’è troppo studio e poca pratica”, è semplicemente che c’è “cattivo studio”.

Detto in altri termini per le aziende che devono assumere il problema non è l’ignoranza di una norma, di una procedura, di un software. Il problema è trovarsi di fronte a persone che non hanno elasticità mentale, creatività, imprenditorialità. Queste sono competenze che si assimilano in parte sui banchi di scuola studiando duramente e in parte nel corso di esperienze “vere” (gestire un bar, organizzare un evento, vendere porta a porta, raccogliere fondi).

L’alternanza scuola-lavoro del duo Giannini-Poletti significherà questo? Non credo. Visto che è un obbligo e che comporta la gestione di numeri enormi (1 milione e mezzo di studenti) diventerà la fiera della burocrazia e operativamente la fiera dell’inutilità: passeggiate al museo, interviste fuffose ai manager, nel migliore dei casi compilazione di file excel e di presentazioni in powerpoint.

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Non sarebbe forse meglio usare queste centinaia di ore preziose per insegnare ai nostri studenti a scrivere e comunicare meglio (ricordo che alcune università stanno istituendo dei corsi di italiano per italiani) e soprattutto a conoscere meglio matematica e scienze?

Spero sinceramente di sbagliarmi. Per adesso penso della alternanza scuola-lavoro obbligatoria ciò che Fantozzi pensò della corazzata Potemkin: una … pazzesca.

L’AUTORE – Lorenzo Cavalieri è laureato in Scienze Politiche e ha conseguito l’MBA presso il Politecnico di Milano. Dopo aver ricoperto il ruolo di responsabile commerciale in due prestigiose multinazionali, si occupa dal 2008 di selezione, formazione e sviluppo delle risorse umane. Attualmente dirige Sparring, società di formazione manageriale e consulenza organizzativa.
www.lorenzocavalieri.it è il blog in cui raccoglie i suoi articoli ed interventi.
Dal 15 ottobre è in libreria per Vallardi  Il lavoro non è un posto.

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