Nel suo nuovo romanzo, “Madrigale senza suono”, Andrea Tarabbia (in cinquina al premio Campiello 2019) fa leggere a Igor Stravinskij il diario che racconta la vicenda del compositore Carlo Gesualdo da Venosa – I particolari e un estratto

Carlo Gesualdo da Venosa, il celebre principe madrigalista di fine Cinquecento, è il centro attorno a cui ruota Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri), il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia, autore nato a Saronno nel 1978.

Carlo Gesualdo uccide la moglie, Maria D’Avalos, perché colpevole di averlo tradito con il nobile Fabrizio Carafa. La legge dell’epoca non può perseguirlo perché ha fatto il suo dovere per proteggere il casato e ha agito nel pieno del suo diritto: una moglie fedifraga minaccia la continuità della stirpe nobiliare e va punita.

Madrigale senza suono Andrea Tarabbia

Da questo momento poi la storia finisce e iniziano le leggende: nascono ballate, voci popolari che alimentano la percezione di Carlo come la figura di un demonio, un sanguinario capace di strappare il frutto illegittimo della colpa dal ventre di Maria morente.

In questa vicenda terribile, che porta un uomo a uccidere la donna che ama per sottostare alle consuetudini della sua epoca, Carlo scopre il suo talento: inizia a comporre, diventando uno dei musicisti più originali e autorevoli del suo tempo.

Andrea Tarabbia foto di Giulia Rocco

l’autore nella foto di Giulia Rocco

Tarabbia, che precedentemente ha pubblicato, tra gli altri, Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie), libro con cui è stato finalista al premio Campiello nel 2016, scrive la storia tormentata di Carlo, che nella finzione del romanzo è letta da Igor Stravinskij, che ne trova il diario.

Per gentile concessione dell’editore ilLibraio.it pubblica un estratto del libro

29 agosto, ora Sesta

Io sono una creatura infelice, un inscatolato, un beffato dal destino. Trovo una consolazione, a volte, restando accanto al mio padrone, ascoltandolo, consigliandogli ciò che è giusto e seguendolo anche in ciò che credo sia sbagliato. Ma è, appunto, una consolazione, non una felicità: credo anzi di non essere stato felice una sola volta – ma non è il mio ruolo e nemmeno il mio compito. Provai però qualcosa che sta vicino alla contentezza, quella sera fatale, e non mi duole confidarlo a queste pagine. Sono passati molti anni, avevamo scoperto che donna Maria si incontrava con il duca d’Andria anche nelle sue stanze private di Palazzo di Sangro, e dunque non si poteva più stare a guardare. Perché provai della contentezza? Perché bisogna fare ciò che è giusto, anche se è doloroso e anche se le conseguenze saranno terribili come terribili sono state. Ma soprattutto perché anch’io, quella sera, mi appropriai del suo odore, e ancora lo sento, specialmente la sera, quando mi corico nella mia scatola dove da tempo non ho più né spazio né modo di tracciare i miei disegni, perché il mio padrone si è ormai ritirato a una vita di monaco in cui entrano solo la musica e il silenzio, io lo sento, sento l’odore del suo corpo che si aprì a me fino a mostrarmi le viscere, sento il tuo profumo di femmina sulle mie braccia, Maria, e mi ricordo e mi immagino le rotondità del corpo tuo, il biondo colore dei tuoi capelli, il timbro della tua voce, che non aveva nulla diverso da quello di molte altre dame, ma che abbinato al moto delle tue labbra diventava un emblema di desiderio, il compendio animale di tutto ciò per cui si spasima e si muore. Eravamo a tavola, e lei chiamò a sé Laura Scala, che attendeva in un angolo: la serva le si fece vicino e si chinò, quasi appoggiando l’orecchio alla bocca di Maria. Le mani di Carlo si aggrapparono al legno del tavolo mentre guardavamo le due donne senza riuscire a capire che cosa la moglie del mio padrone sussurrasse alla sua cameriera. Laura Scala uscì e Maria, senza dire nulla, senza nemmeno rivolgere uno sguardo di spiegazione o complicità a suo marito, finì di sorbire ciò che aveva nel piatto. Carlo si fece forza, coprì con un piatto la pietanza che stava consumando, chiamò il Bardotti con un gesto delle dita e chiese che gli fosse versato del vino nella coppa. Il pranzo proseguì in silenzio finché, da dietro la porta, si sentirono i passi di qualcuno che si avvicinava e la voce di un bambino che rideva. Laura Scala entrò per prima nella sala da pranzo, seguita da Silvia Albana che teneva in braccio il piccolo Emanuele e che si fermò sulla soglia.

«Entra, entra» le disse Maria, «abbiamo finito».

Il piccolo Emanuele guardò la madre che gli allungava le braccia e, d’istinto, posò la testa sul petto della nutrice.

«Stavo per farlo addormentare» disse Silvia Albana, come a voler giustificare il gesto del piccolo.

«Posalo a terra» disse Maria, e poi, rivolgendosi al figlio.  «Vediamo se vieni da solo fino alla tua mamma».

Silvia Albana accompagnò Emanuele a terra, lo aiutò a mettersi a quattro zampe, poi gli diede un buffetto sul sedere. «Su, vai dalla tua mamma!» disse.

Emanuele rimase fermo per un istante, come interdetto. Si guardava le manine schiacciate sul pavimento e ogni tanto sollevava la testa e vedeva Maria, che adesso si era inginocchiata e lo aspettava a braccia aperte e lo chiamava.

«Signora, vi sporcherete il vestito» disse Laura Scala, ma Maria sembrò non sentire, così la serva fece alcuni

passi indietro verso la porta, avvicinandosi alla nutrice e osservando il piccolo che adesso aveva portato avanti una manina sul pavimento e guardava la mamma, e quasi rideva, e spingeva con il sedere senza riuscire a muoversi.

«Su, amore, vieni dalla mamma! Metti avanti l’altra manina!» ripeteva intanto Maria che, camminando sulle ginocchia, si era nel frattempo avvicinata al piccolo di qualche passo. Emanuele lanciò un verso, forse una piccola risata, e mosse all’improvviso le mani e le gambe: fece un passo, forse due, e si stupì egli stesso di ciò che aveva fatto. Così si fermò, si mise goffamente a sedere e, guardando ora la madre ora Silvia Albana, si mise a ridere e accennò un breve applauso – cosa che probabilmente aveva imparato a fare insieme alla nutrice. Maria non resistette e corse verso il figlio, lo prese tra le braccia che ancora applaudiva e lo riempì di baci sulla guancia. Poi si voltò verso Carlo, per un istante madre e figlio guardarono il mio padrone, e la madre, sul cui volto, adesso, stava la stessa luce che hanno le madonne nei dipinti del pittore

delle annegate, disse:

«Hai visto Emanuele? Hai visto cos’ha imparato a fare?»

Carlo, che per tutto il tempo era rimasto seduto e in silenzio, sorrise e fece per dire qualcosa, ma fu interrotto da un grido improvviso di Emanuele, che si era messo a piangere. Maria tentò di consolarlo dandogli dei colpetti tra le scapole, mentre Silvia Albana, immobile sulla porta, guardava madre e figlio senza poter intervenire, e in quello sguardo io colsi un lampo di sufficienza. Il bimbo non si calmava, dalla sua faccia congestionata colavano lacrime e bava, ed egli guardava un punto preciso dentro la sala da pranzo: il punto da dove, ritto in piedi, il mio corpo aveva osservato tutta la scena. Infine Maria si decise, consentì a Silvia Albana di entrare nella sala da pranzo e le mise in braccio il figlio. La nutrice lo trasse a sé, gli pulì il viso con un fazzoletto, poi appoggiò l’ampio seno alla guancia del piccolo e cominciò a fare con la bocca il verso che si fa per chiamare i gatti, ma con lentezza, e alternandolo a una breve nenia che ai miei orecchi suonò come un «No no no» ripetuto sottovoce. Ben presto il piccolo si calmò, lo sentimmo respirare profondamente: si era addormentato sul petto di Silvia Albana.

«Dorme, padrona» disse lei, tenendo una mano sulla testa del piccolo, come a proteggerla.

«L’ho fatto piangere» disse Maria, dal cui volto era scomparsa la luce.

«Ma no, padrona: era solo stanco. Quando ci avete chiamati, lo stavo facendo addormentare».

«Si è divertito, con me?» domandò allora Maria, rianimandosi.

«Certo che si è divertito» rispose Silvia Albana. «Siete la madre. Avete visto come vi è venuto in braccio? È solo che questa è l’ora in cui lo metto in culla».
«Va’, allora: fallo dormire. Passerò da voi più tardi».

(continua in libreria…)

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