Su ilLibraio.it un estratto dal saggio “L’italiano è meraviglioso – Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua”, firmato da Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca

Perché oggi è molto più facile sentirsi offrire dello street food anziché del “cibo di strada”? Come mai i politici dichiarano di voler refreshare il Paese se intendono semplicemente “rivoltarlo come un calzino”? Chi teme un competitor e cerca un endorsement non potrebbe aver paura di un “concorrente” o di un “avversario” e aspirare a un “sostegno” o a un “appoggio”?

Questi esempi ci segnalano un’evoluzione preoccupante dell’italiano che negli ultimi anni si sta logorando non solo per il proliferare degli anglismi ma anche per un grave peggioramento delle nostre cognizioni linguistiche. Siamo ormai un Paese dove i fiumi non straripano (una parola perduta!) più, semmai esondano, e i tribunali emettono “ordinazioni” (sacerdotali?) invece che “ordinanze”.

Come presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini combatte ogni giorno per difendere la nostra meravigliosa lingua e attrezzarla per le sfide del futuro. L’italiano, ci ricorda Marazzini nel saggio L’italiano è meraviglioso – Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua (Rizzoli), ha una storia diversa da quella dell’inglese o del francese – nati con gli Stati nazionali – perché è fiorito ben prima che ci fosse l’Italia: dopo essersi sviluppato nel Medioevo come idioma popolare figlio del latino, si è arricchito splendidamente con la nostra grande letteratura diventando così, fra tutte le lingue, la più colta, raffinata e amata all’estero. Vogliamo dunque ora perdere questo nostro immenso patrimonio di sensibilità e di cultura? In questo libro Marazzini  presenta una diagnosi dello stato di salute della nostra lingua e pone le basi per invertire la rotta, appellandosi anche ai politici e alle università, spesso responsabili della dispersione di parole e significati. Allo stesso tempo, passando in rassegna gli errori di ogni genere che si stanno insinuando, ci offre l’opportunità di correggerci e di recuperare le mille e mille sfumature della nostra lingua che forse ci stanno sfuggendo.

l'italiano è meraviglioso

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, un capitolo

Scansare gli anglismi inutili

Anglismi: ma non sono tutti uguali
Ci sono ormai molti libri che elencano parole inglesi affiancandole ai loro bravi sostituti italiani. Sono tutti libri fortunati, a cui arride un certo successo di vendita, perché esiste un pubblico che vuole comprendere il significato delle parole che non conosce, parole straniere come CEO, auditing, backstage, car pooling, car sharing, cluster, compliance, convention, crowdfunding, dress code, endorsement, fake news, fast track, rumour e via dicendo. Il comune utente, magari, gradirebbe non vedere nemmeno quelle parole oscure, che cominciano persino a dargli fastidio. Ma i giornali ne sono pieni, e piene ne sono le conversazioni dell’intellighenzia, tanto per usare una parola russa di moda in altri tempi per indicare il fior fiore degli intellettuali. Il successo della raccolta di firme avviata e conclusa nel 2015 dalla pubblicitaria Annamaria Testa, firme poi consegnate all’Accademia della Crusca per invitare a porre un freno all’eccesso di anglismi, è la prova che questo argomento, almeno in parte, incontra il favore della gente.
Esaminiamo un primo problema. Come si fa a distinguere tra anglismo «utile» e anglismo «inutile»? La cosa più semplice sarebbe senza dubbio una posizione di condanna indiscriminata: potremmo assumere un atteggiamento puristico, e bandire tutte le parole forestiere, senza distinzione; ma non crediamo che questa sia la posizione giusta. Molte parole forestiere sono davvero insostituibili di fatto, se non in teoria, come wi-fi o stent, perché sono parole nuove giunte a noi con il loro contenuto tecnologico o concettuale nuovo. Questa doppia novità le giustifica.

Proviamo a scorrere l’elenco che abbiamo appena fornito nel primo capoverso di questo stesso paragrafo. Non ci sarà difficile verificare quali siano le parole che davvero hanno un contenuto concettuale realmente nuovo, e quali ne sono prive, cioè sono banalissime, tali da non creare problemi in caso di sostituzione. Il CEO, in genere, è un semplice amministratore delegato, che prima si indicava come AD senza problemi di sorta. L’auditing è una semplice «audizione», colorata però di una superiorità che non esiste se non nella mente di chi adopera questo inutile termine per darsi l’aria di tecnocrate. Backstage è il «retroscena», o quello che accade «dietro le quinte»; abbiamo una buona tradizione di teatro, per cui non sarà il caso di accattare parole di scena. Sempre più spesso il cluster è indicato molto pomposamente nei più recenti programmi di convegni, ma in realtà si tratta di una cosa banalissima: è semplicemente un «gruppo» che si riunisce per trattare un argomento specifico in una sessione riservata a quel tema; dunque «gruppo» basta e avanza, ma ovviamente le esigenze della retorica modernizzante operano con forza. In questo caso producono anche una certa confusione, perché cluster è forestierismo già entrato nel linguaggio scientifico italiano per designare un ammasso di stelle. Altrettanto banale è la convention, null’altro che un «raduno» o «congresso», e si può persino rammentare la «convenzione», termine che gli storici adoperano per eventi quali la celebre Convenzione di settembre, l’accordo diplomatico stipulato a Fontainebleau il 15 settembre 1864 tra le delegazioni del Regno d’Italia e della Francia di Napoleone III, l’accordo che prevedeva lo spostamento della capitale da Torino a Firenze.

E ancora: il dress code viene invocato secondo un’etichetta anglosassone, perché quella italiana prevede semplicemente l’«abito scuro», senza indicare il concetto di «codice d’abbigliamento»; e per fortuna la formula «abito scuro» si legge ancora negli inviti del cerimoniale della nostra Presidenza della Repubblica. Non è così, però, negli inviti di certi ambienti della finanza e dell’industria, in cui l’anglofilia è assai più forte. L’endorsement, la cui fortuna è crescente, ha molti equivalenti italiani, come «adesione» e «sostegno»; l’anglismo, in questo caso, rappresenta davvero una soluzione risibile, quasi come lo sono le forme popolari mission e location. Una ricerca nell’archivio elettronico di «Repubblica» permette di reperire endorsement, ancora usato tra virgolette, già nel 1984-85; poi, nei primi anni del nuovo millennio, le virgolette sono cadute e la parola si è diffusa senza freno. Ecco ora le fake news: non sono altro che «false notizie» o «fandonie». Sono sempre esistite, ma dette in inglese appaiono più gigantesche e tecnologiche, almeno agli occhi degli ingenui. Non voglio nemmeno commentare il rumour, che arriva all’inglese dal latino rumor, passando in questo come in altri casi attraverso l’antico francese. L’inglese rumour equivale perfettamente al nostro «voce» (e a «pettegolezzo», «diceria»). Come si vede, non ho commentato né tradotto alcune parole dell’elenco, perché ho scelto di intervenire soltanto sugli anglismi palesemente inutili, oserei dire, anzi, sciocchi. Forse alcuni degli anglismi che non ho discusso potranno sembrare inutili, ma, almeno, la maggior difficoltà di indicare una traduzione soddisfacente vale come prova che in essi vi è comunque qualche elemento di novità, per cui possono essere presi un po’ più sul serio. Questo può essere appunto un modo di distinguere la semplice zavorra dal prestito che riveste qualche interesse intellettuale.

 

Libri consigliati