“L’incontro è anche un dono, lo possiamo volere, sognare, averne bisogno, ma non possiamo forzarlo. Possiamo solo osare andare nel luogo aperto nel nostro essere, sperare, e aspettare. La grande piazza aperta la penso come questo posto – fuori e dentro – dove l’incontro può avvenire. Il petto, lo penso come la piazza del corpo, dov’è il cuore, dove vogliamo stringere l’altro a noi. Penso anche che leggere possa essere un incontro molto importante, quando leggiamo siamo in una grande piazza aperta interiore, in un dialogo con il testo e con noi stessi tra i più intimi e aperti”, racconta la scrittrice Hanne Ørstavik, in libreria con “A Bordeaux c’è una grande piazza aperta”, romanzo in cui affronta proprio il tema dell’incontro. Inoltre l’autrice, da poco trasferitasi in Italia, riflette su come la letteratura sia una chiave d’accesso agli usi e ai costumi di un paese. E consiglia alcuni nomi di colleghi norvegesi ancora inediti da noi… – L’intervista

Un flusso di coscienza che accompagna il lettore nella mente e nella vita della protagonista, un’artista, che non vede l’ora di incontrare il suo amato. Questo è A Bordeaux c’è una grande piazza aperta (Ponte alle Grazie, traduzione di Sara Culeddu), primo romanzo tradotto in italiano della scrittrice norvegese Hanne Ørstavik. Ruth crea opere d’arte che vengono vissute da chi le osserva, ma per quanto riguarda l’amore, sembra averlo trovato in un critico. Lo ha conosciuto prima attraverso il suo lavoro, poi tra loro è iniziata una relazione complessa, in cui l’incontro non è mai definitivo. Ma c’è anche la figlia adolescente di Ruth, che sta scoprendo l’amore. E c’è Bordeaux, città portuale, luogo d’incontro per antonomasia.

E d’incontro, anche attraverso la letteratura, Hanne Ørstavik ha discusso con ilLibraio.it. Inoltre, la scrittrice ha svelato il grande cambiamento che ha portato nella sua vita il trasferimento in Italia, un paese di cui sta imparando la lingua e gli usi anche grazie ai libri.

“Mi vuoi incontrare”. L’incipit del suo romanzo mette subito in evidenza il tema dell’incontro, che è con l’altro, ma anche con se stessi. È possibile incontrarsi per davvero?
“È la grande domanda del romanzo. C’è Ruth che vuole incontrare Johannes, fin dall’inizio della loro relazione, un anno prima, ora lo aspetta a Bordeaux, ma ci sono anche i giovani, Lily e Ralf, che vanno l’una verso l’altro lungo il ruscello sotto gli alberi del parco, e ci sono gli spettatori nell’istallazione di Ruth, anche lì troviamo l’esposizione all’esperienza dell’incontro. E la città stessa, Bordeaux, è un luogo d’incontro, tra il fiume e l’oceano. E, possiamo? Sono davvero aperta, io, per l’incontro? Dalla nascita siamo diretti verso l’incontro profondo e vero, è il nostro bisogno più fondamentale. Allo stesso tempo, l’incontro è l’evento più spaventoso che possiamo fare, perché incontrarsi necessita di essere aperti. Nell’apertura siamo anche disposti a essere fatalmente feriti. Il rapporto con l’altro non può essere migliore del rapporto che abbiamo con noi stessi”.

E quindi l’incontro è imprevedibile…
“Forse l’incontro è anche un dono, lo possiamo volere, sognare, averne bisogno, ma non possiamo forzarlo. Possiamo solo osare andare nel luogo aperto nel nostro essere, sperare, e aspettare. La grande piazza aperta la penso come questo posto – fuori e dentro – dove l’incontro può avvenire. Il petto, lo penso come la piazza del corpo, dov’è il cuore, dove vogliamo stringere l’altro a noi. Penso anche che leggere possa essere un incontro molto importante, quando leggiamo siamo in una grande piazza aperta interiore, in un dialogo con il testo e con noi stessi tra i più intimi e aperti”.

Il racconto della sessualità è spesso un terreno sdrucciolevole. Nel suo libro questa dimensione è presente senza infingimenti e manierismi. Qual è il segreto per raccontare bene e senza cadute una sfera così intima e delicata?
“Nel romanzo Ruth vuole fare l’amore con l’uomo che ama. Ma lui, Johannes, dice di avere un desiderio sessuale pornografico. Dove lei non c’è. Per lui, amore e sesso sono separati. Vuole essere con lei, ma lei non l’interessa sessualmente. Questo rifiuto le dà un grande dolore.
Come vivere questa divisione? Se non c’è incontro corporale, come sentirsi veramente amata? Lei ha bisogno del segno d’amore, dell’atto. E lei lo desidera. E poi, come scriverlo? Mi viene da rispondere: come non scriverlo. Scrivo da dentro, sono presente con i miei personaggi, sono loro, nel momento in cui scrivo. Mi dimentico di me. Sono lì”.

La sua scrittura sembra un sismografo capace di registrare i sommovimenti dell’inconscio. Quale via d’accesso utilizza per entrare in contatto col suo mondo interiore in maniera così potente? Ha fatto un percorso psicanalitico? O il suo è un approccio più istintivo?
“Credo che abbia a che fare con l’essere presente nel momento, nella situazione del testo. Scrivo quello che vedo. Penso il testo come un’immagine, e se la scrivo più apertamente che posso, ho fiducia che ci sarà sempre di più di quello che posso sapere io. Quando scrivo, ho il sentimento di un centro profondo al quale tutto nel testo è legato. Devo solo scrivere restando in contatto con questo centro”.

Ci sono anche riferimenti letterari a cui si è rifatta per ricreare sulla pagina il flusso di coscienza della protagonista?
“No, quando scrivo non ci sono altri testi presenti. C’è solo il luogo del romanzo, vedo solo quello, sono dentro”.

Negli ultimi tempi si dibatte molto sul riconoscimento del valore della letteratura scritta da donne e della rappresentazione di queste ultime nei festival e nei premi letterari. Nella sua esperienza di autrice si è mai posta interrogativi sul valore letterario dato da pubblico e critica alle opere scritte da donne?
“Sí, certo! Ma cosa posso fare? Sono donna, scrivo come scrivo, non ho tempo né voglia di spendere le mie forze a combattere il maschilismo. Sono cosciente della cecità della società maschilista, ma aprire gli occhi dei maschi non è il mio lavoro. Perdono tanto, ma è una loro scelta. La mia è di scrivere, sono un essere umano di sesso femminile, ma non scrivo con il sesso”.

Da non molto, vive in Italia e parla già l’italiano. Che cosa la colpisce della nostro Paese e della nostra cultura? Pensa che alcuni luoghi che ha conosciuto e che le stanno particolarmente a cuore possano entrare a far parte del suo universo narrativo?
“Sono tanto felice e grata di vivere qui, l’amore che mi ci ha portato è il grande regalo inaspettato della mia vita. Sono incantata della struttura del giorno in Italia, come mangiate, l’aperitivo, la cena come avvenimento. Ma ho anche avuto bisogno di tempo per assimilare il codice del comportamento milanese, come avvicinarsi, che distanza prendere: in Norvegia non si usa piu il Lei”.

Sempre parlando di Italia, ha letto autori del nostro paese?
“Si, questa è una delle grandi fortune di imparare l’italiano. Ho incominciato a leggere di nuovo Elena Ferrante, il suo primo romanzo, I giorni dell’abbandono. Poi ho letto L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio. E da lì mi sono immersa nella scrittura di Elsa Morante, ho letto La storia e sto leggendo Aracoeli. Ho anche visto molti dei film di Pasolini, che amo. In palestra, quando corro, ascolto i discorsi dello psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, che parla di cose importanti e profonde in un modo molto chiaro. Parla anche lento e ripete spesso le sue frasi e questo è molto istruttivo per una straniera. Adesso capisco che entrare nella cultura così, tra i libri e i film, mi aiuta ad avere uno sguardo sull’Italia più ricco, posso vedere e capire diversamente la vita qui perché vedo da dove viene”.

Tra gli autori norvegesi contemporanei ancora inediti in Italia, chi legge con maggiore interesse?
“Inger Bråtveit, Øyvind Ellenes, Thure Erik Lund, Victoria Kielland e Janne Camilla Lyster”.

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