Con “C’era una volta a… Hollywood” Tarantino racconta, con affetto e nostalgia riparativa, l’innocenza perduta e la gloria bastarda del (suo) cinema. Il suo è un atto di fede commovente nella potenza salvifica che i film (e anche i libri), meccanismi di narrazione ancora potentissimi, possono letteralmente, forse meglio dire letterariamente, salvarci la vita… – L’approfondimento

La realtà (pulp-abile e pulp-itante) e la sua controfigura. Il ricordo vivido d’infanzia dell’autore cinefiglio e ribelle per eccellenza, filtrato dalla fiaba e dallo spaghetti western. C’era una volta…

Gli studios (il set hollywoodiano) e la città (Los Angeles) si confondono nella memoria e sulla pellicola. La luce crepuscolare dei neon disegna l’atmosfera della notte americana e la materia fiammante delle automobili sfreccia per vie tortuose e iconiche. È il Cielo Drive sopra (e secondo) Tarantino, che sceglie di ripercorrere la strada perduta di Sharon Tate, quando la setta di Charles Manson suonò il campanello di casa Polansky. Perché l’orrore del mondo (l’incubo), trasfigurato, viene alchemicamente (il sangue in ketchup, secondo la classica formula del regista) convertito nella materia di cui sono fatti i sogni: una carezza al falcone maltese prima di ritirare la copia di Tess di Thomas Hardy in una libreria antiquaria è indizio di questo destino, in mezzo alla selva di citazioni di cui Tarantino dissemina i suoi film, in una scena solo in apparenza marginale. L’immaginario, del cinema e della letteratura, può trionfare sul reale, curarne le ferite, tornare in vita. È tesoro, chimera, riserva e antidoto.

C'era una volta a... Hollywood tarantino

Con C’era una volta a…Hollywood il regista di culto, giunto al suo ottavo film e mezzo (se contiamo i due Kill Bill come opera singola), racconta con affetto e nostalgia riparativa l’innocenza perduta e la gloria bastarda del (suo) cinema, attraverso Rick Dalton (Leonardo Di Caprio acciaccato e in crisi), attore western sul viale del tramonto, e il suo doppio, galoppino e stunt-man, Cliff Boooth (Brad Pitt in forma smagliante), possibile uxoricida e fido buddy (“poco più di un fratello, poco meno di una moglie”) dell’attore sull’orlo di una crisi di nervi.

Nel mezzo del cammin della loro vita, in cui alla crisi dei quaranta corrisponde quella di una carriera stanca e senza sbocchi, il cattivo della dei western televisivi e la sua ombra, vicini di casa del mito inarrivabile (la coppia Polansky/Tate). Il cowboy e il suo sostituto, sono testimoni inconsapevoli e loro malgrado di un trapasso epocale, vivono un momento di transizione per società e cinema americani: i sogni psichedelici di liberazione rivelano il loro risvolto dannato e allucinato. Gli hippies, giovani e anti sistema, possono improvvisamente trasformarsi nei figli dei fiori del Male.

Tarantino e il suo doppio, potremmo dire. La tragedia e le sue inattese possibilità di salvezza (il sesto atto evocato dalla poesia della Szymborska?), ché le fiamme (e i lanciafiamme) dell’inferno, nel gioco del cinema, della televisione e della letteratura, possono perfino vendicare i roghi della Storia, o per lo meno farne da schermo. L’ultimo film di Quentin è omaggio amaro e reinvenzione, ucronia (un passato sfasato) e utopia (un non luogo migliore) delle immagini movimento, citazionismo intriso di emozione. Senza soluzione di continuità, come attraverso lo specchio, il cinema è insieme madelaine proustiana e divertissement pascaliano, immersione e divagazione, giogo e gioco.

Il 1969, un anno chiave (sul grande schermo le strade di fuga Easy Rider e il terreno insanguinato del Mucchio selvaggio), è un momento di rivoluzione e smarrimento, nel cinema americano la fine della classicità e la promessa della New Wave, che Tarantino rievoca e riscrive, e lo fa attraverso una onnipotenza inesausta e infantile, eppure con una libertà e una maturità inattese.

Due scene chiave, senza voler indulgere nello spoiler, sembrano ben sintetizzare il senso di questa operazione di nostalgia e affetto, omaggio al mezzo, alla sua potenza mitopoietica, e rielaborazione del proprio singolare mondo poetico.

Nella prima, protagonista è Sharon Tate, ricreata alla perfezione nel corpo di Margot Robbie, che, per giocosa seduzione narcisistica, va a vedere se stessa al cinema e – primo piano sui suoi piedi destivalati e sul volto un occhiale maschera – si diverte a vedere il pubblico divertirsi per il personaggio che, fra goffe cadute e abili mosse di arti marziali, si destreggia sul grande schermo. Il cinema, come un ventre materno e gioco di specchi, si fa dunque spazio in cui trovare protezione e conforto dalle intemperie del mondo, evasione e rifugio. Il cinema è luogo della gestazione, e tempo della rigenerazione, arte di resistenza marziale e materna insieme, dove il destino e l’uomo si moltiplicano. Un omaggio alla giovane attrice, trucidata incinta dalla setta di Manson costituisce un momento importante del discorso tarantiniano.

La seconda scena vede Rick Dalton, in una pausa di lavorazione, sedersi di fianco a una bimba attrice (Jilulia Butters), che sarà suo ostaggio nel successivo ciak. Lei è concentrata totalmente sulla lettura: ha un grande volume in mano e nessuna voglia di essere seccata. Mentre l’attore, fra sorsi alcolici e sputi in terra, è a metà di un romanzetto western, e vorrebbe scambiare due parole con lei. La bimba, otto anni, la sicumera di un’attrice spocchiosa e consumata, tutta perfezionismo e senso di superiorità, sta leggendo una biografia di Walt Disney (“è un genio!”), mentre lui, raccontando la lacrimevole trama del libretto, si commuove per le sventure di un pistolero in crisi che, come il teatro messo in piedi da Amleto per smascherare gli assassini, rispecchia e rivela l’anima di chi legge. La scena, uno di quei dialoghi memorabili che costellano la galassia filmica del regista delle Iene, è recitata dalla figlia di un animatore di Forzen (gioco vuole, in un film pieno di eredi, con numerose “figlie di” – Thurman, McDowell, Parry – in ruoli significativi) e da un grande attore, Di Caprio, che non esita a esporsi in maniera autoironica. Ancora una volta il dialogo ci racconta di come la fantasia, quella più cheap e dozzinale della narrativa di genere come quella più brillantemente disneyana, attraverso le sue storie può rispecchiarci e toccare corde molte profonde.

In questo senso, C’era una volta a…Hollywood è un atto di fede commovente nella potenza salvifica che i film e i libri, meccanismi di narrazione ancora potentissimi, possono letteralmente, forse meglio dire letterariamente, salvarci la vita.

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