Qual è il libro più bello di sempre? Una domanda banale in apparenza, che sa di gioco tra amici in una serata uggiosa. Ma diventa una cosa molto seria se a proporla è il settimanale americano Time Magazine.
Tanto che, la domanda è diventata un sondaggio e il risultato una classifica The 10 Greatest Books of All Time pubblicata nel 2007 (qui l’articolo), e rivista nel 2013, che periodicamente torna a circolare in Rete, rilanciata dai social network e dalle considerazioni che i lettori fanno sull’elenco.
A stilarla sono stati tra gli altri autori del calibro di Jonathan Franzen, Norman Mailer, David Foster Wallace, Tom Wolfe, MIchael Chabon, Jonathan Allen Lethem e Stephen King.

Ma quanto valgono davvero queste classifche? Cadoinpiedi.it ha chiesto agli autori, che sono direttamente parte in causa, come la pensano.
In basso il contributo è di Hans Tuzzi, scrittore e saggista italiano. Ha insegnato al Master di editoria Cartacea e Multimediale diretto da Umberto Eco presso l’Università di Bologna.

Temo che l’equivoco, in questa classifica opinabile e sostanzialmente inutile ancor prima che futile, come tutte le “top ten”, stia intero nel termine libro, troppo generico. Non per nulla, all’abusata domanda “Che libro portereste su un’isola deserta?” Chesterton rispose “Un manuale su come costruire una barca”.
Dov’è Omero? dove i grandi tragici greci? dove Virgilio, e Dante, e… e … e …? Ma anche a volersi limitare al genere romanzo, che nasce in Grecia in età alessandrina, dove sono Swift, e Rousseau, e Goethe? Vero è che Nabokov giudicò i romanzi di Dostoevskij “monumenti di gesso”, ma siamo proprio sicuri che i Fratelli Karamazov debbano cedere il podio a Lolita? Ottavo in classifica, Proust, poi, per dire, a Middlemarch preferiva The Mill on the Floss: vogliamo tenerne conto?

Insomma, è sin troppo facile sparare sulla Croce Rossa: anche questa, come tutte, ma proprio tutte coteste classifiche, non solamente è opinabile in sé ma è anche specchio di una cultura dominante – e poco aperta al resto del mondo – com’è quella di lingua inglese. Gli USA, si sa, sono il paese che meno traduce da altre lingue.

La lingua come strumento di dominio? Può esistere un grande poeta moldavo?, si chiedeva Eugenio Montale. E rispondeva: sì, in assoluto; no rispetto al bacino di lettori. Resterà un grande poeta sconosciuto, letto da poche persone perché, si sa, come diceva Robert Frost la poesia è ciò che si perde nella traduzione. Un po’ il discorso delle cannoniere fatto da alcuni critici a proposito della letteratura inglese dell’Ottocento: senza la rendita di prestigio imperiale molti romanzieri d’età vittoriana sarebbero già dimenticati se invece che inglesi fossero stati, che so?, moravi. Per non dire degli americani d’oggi, spesso davvero modesti. E proprio alcuni di questi scrittori modesti sono chiamati a stilare classifiche millenariste – o sono nelle giurie dei premi.

Modesti per qualità o per genere scelto? Si ha un bel dire che il primo giallo nella storia della letteratura è l’Edipo re. A questo proposito, la presenza in classifica di Madame Bovary mi suggerisce una considerazione non così peregrina come potrebbe sembrare. Un critico ha fatto notare che il medico di provincia al quale Flaubert s’ispirò per la figura di Charles Bovary era, probabilmente, un duplice uxoricida sfuggito abilmente per due volte alle superficiali inchieste seguite alla morte della prima e della seconda moglie. Uno scrittore poco sicuro di sé oppure volto al facile successo immediato ne avrebbe tratto una sorta di romanzo giallo o truculento. Flaubert, confidando nella larghezza delle proprie spalle, scrisse un grigio capolavoro che venne processato per offesa alla morale e che si vende a quasi duecento anni dalla pubblicazione. Morale? I lettori seguano le loro curiosità, gli scrittori pensino al proprio lavoro. E gli uni e gli altri ignorino le classifiche. Serenamente.

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