In “Editori vicini e lontani” Cesare De Michelis raccoglie i ritratti di alcuni protagonisti del mondo del libro di ieri e di oggi. Su ilLibraio.it l’introduzione, in cui il presidente della Marsilio riflette sul ruolo dell’editoria “di cultura” e spiega: “Mettersi ‘insieme’ è inevitabile; pretendere di omogeneizzare, nel caso dei libri, irragionevole e distruttivo”

Gli editori sono, per loro stessa ammissione, degli strani personaggi. Una via di mezzo tra gli scrittori e i lettori, per vocazione, passione e un po’ di incoscienza, si mettono nella condizione di fare da tramite tra gli uni e gli altri. Prima che tutto il resto, con le loro vite e le loro vicende editoriali, attraverso la storia dei libri che hanno pubblicato, ci possono raccontare un intero mondo…

Cesare De Michelis

Cesare De Michelis

Editori vicini e lontani di Cesare De Michelis, presidente della Marsilio, in uscita per la collana Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile di ItaloSvevo edizioni, parte da queste premesse, e raccoglie tante storie editoriali: tra gli altri, di Giuseppe Maria Galanti, Adriano Salani, Roberto Bemporad, e poi Gobetti, Formiggini, Bompiani, Alberto Mondadori, Giulio Bollati, Gianni Sofri e Giovanni Gandini, fino ad arrivare a Roberto Calasso, Marco Cassini e Gian Arturo Ferrari.
DeMichelis

 

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo l’introduzione

Nell’andamento del mercato editoriale, nella sua stessa struttura organizzativa, si riflette impudicamente lo stato della vita culturale di un paese; è proprio come guardarsi nello specchio, si vede esattamente quel che c’è. Nei libri si narrano vicende, si raccolgono i risultati delle ricerche, si rivela la curiosità o la chiusura rispetto a quanto succede vicino o lontano, acquistano forma e significato le fantasie più segrete e le mitologie più diffuse; attraverso di essi si riconoscono le tendenze dei lettori, i loro gusti e i loro interessi, si ritrovano i segnali coerenti del disegno delle istituzioni.

L’editoria è, per un verso, troppo debole per modificare lo stato delle cose e, per l’altro, troppo ostinata per non stare dietro ai tempi, ai costumi, alle novità; ma va subito precisato che ogni discorso sull’editoria libraria rischia l’evanescenza dell’assoluta genericità quando non si misura con questioni meno universali: se essa è uno specchio bisognerà pure distinguere che cosa ha di fronte.

L’editoria di cultura non può pretendere di coinvolgere e di riflettere altro che il mondo degli studi, essa è in stretto rapporto di interdipendenza con le istituzioni della ricerca – dalle accademie alle università, dai laboratori ai centri studi – e con la loro vitalità: a esse si rivolge e da esse viene alimentata.

È inimmaginabile nel nostro mondo di oggi – ma anche in quello di ieri – un ruolo decisivo dell’editoria come sostituto delle istituzioni, come effettivo committente della ricerca; il suo ruolo è propriamente di mediazione, al più di amplificazione, o enfatizzazione: non tanto l’indirizzo e il merito degli studi le competono, quanto i modi della presentazione, le logiche della proposta e dell’offerta.

L’editore sta nel mezzo tra chi ha scritto e chi leggerà e, come gli antichi pontremolesi, carica i fogli stampati nella sua gerla per trasportarli da un capo all’altro: nasce qui, nel riconoscimento di questo ruolo, l’esigenza di un progetto o meglio di un percorso da compiere, un percorso che costa lavoro ed energie, risorse e denaro, e va quindi pazientemente studiato per non vanificare gli sforzi.

Nel corso di questo secolo, quando tragicamente le ideologie si illusero di guidare i destini dell’uomo e del mondo, l’editoria di progetto – al pari della gran parte della cultura – sacrificò qualsiasi regola di mercato al primato della propaganda, giustificando così gli scacchi che intanto subiva con l’etica machiavellica del fine che giustifica i mezzi.

Il progetto, insomma, coincideva con il piegare i consigli del buon senso al lieto fine della verità, che si immaginava di conoscere sin dal principio. L’editoria, allora, aveva una linea e il tragitto che doveva percorrere era disegnato sulla carta secondo gli astratti principi di una rigorosa ortodossia. Dacché il Muro è crollato, di linea non si parla più, ma l’editoria di progetto è il bimbo che rischia di essere gettato insieme all’acqua sporca; ci si piega al mercato con la stessa predisposizione servile, la stessa ottusa obbedienza, la stessa cieca fiducia con cui ci si sottometteva al primato dell’ideologia.

Se volete convincervene, leggete Editoria senza editori di André Schiffrin (2000), editor americano di Pantheon Books defenestrato da una delle multinazionali della comunicazione. Eppure l’apologia – un po’ esplicita e un po’ sottintesa – che Schiffrin fa del «piccolo e indipendente» si scontra – oggi con più forza di ieri – con l’insufficienza di qualsiasi volontarismo individualistico, con la sperimentata impotenza del “far da sé”.

Il futuro non appartiene ai fautori del “piccolo è bello” e neppure ai profeti di un mercato di massa del libro “per tutti”: estreme radicalizzazioni di una verità che, al contrario, sta nel mezzo e, cioè, deve fare i conti con investimenti di organizzazione e di comunicazione impossibili a chi resta “piccolo” e a scelte, proposte, edizioni che debbono misurarsi con poco numerose e qualificate comunità di competenti.

Mettersi “insieme” è, dunque, inevitabile; pretendere di omogeneizzare, nel caso dei libri, irragionevole e distruttivo.

Concordo, dunque, (anche perché – lo confesso – sono io) con quell’anonimo editore – citato da Alfredo Salsano nella Presentazione del libro di Schiffrin –, che nel 1996 dichiarava che «non è vero che tutti i libri hanno la stessa valenza» e che, pertanto, ogni impegno ad allargarne la diffusione dovrebbe essere riservato soltanto a quelli che durano o, che è lo stesso, a quelli che valgono.

Il mercato non deve essere un nuovo tiranno, è soltanto una regola semplice come le quattro operazioni dell’aritmetica, ci obbliga a fare i conti, e non sempre il risultato più grande è anche quello più giusto.

L’editoria di cultura deve avere la responsabilità di predisporre un progetto, di misurare il suo passo su quello della società in cui si trova ad agire, forzando il ritmo soltanto finché i lettori la seguono, come una guida in montagna, o un maestro in classe.

Ogni libro di ricerca ha il suo pubblico ristretto, che è costituito dalla comunità scientifica nella quale è nato, e poi un pubblico più ampio e generale, di fatto riconoscibile in chi aspira a far parte di quella comunità scientifica – i discepoli – o nelle aree disciplinari contigue o afferenti.

Immaginare questo pubblico largo come destinatario di ogni libro significa scontrarsi con la realtà senza vantaggi; accade spesso che il mercato premi proprio quei libri che la comunità scientifica considera ininfluenti e al contrario che il pubblico non si avvicini a libri per gli addetti ai lavori fondamentali.

L’editoria di cultura e di progetto ha già scelto il suo tragitto: si muove lungo i sentieri del sapere e quindi lungo gli itinerari costruiti dalle comunità scientifiche, sforzandosi ogni volta di allargare le maglie dei recinti disciplinari, delle conventicole accademiche; i suoi successi coincidono con ogni occasione di apertura e di scambio, perciò la sua crescita è lenta, matura nel tempo, si affida alla forza del catalogo, al rigore del disegno, alla durata delle idee.
Il mercato in questa prospettiva è una regola pragmatica che premia soprattutto la capacità di previsione, che smorza qualsiasi illusione di linguaggi universali e di culture totalizzanti; seleziona le proposte, ma delude qualsiasi illuministico dover essere; misura il percorso compiuto, certifica la capacità della società di rispecchiarsi nel prodotto-libro e orienta assai meglio di ogni ideologia.

Non c’è scampo, nei libri si specchia il mondo che c’è e bisogna essere contenti che così sia, perché questa è la premessa di tutte le libertà.

(continua in libreria…)

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