In “Feel Free”, la sua nuova raccolta di saggi, Zadie Smith si dimostra capace di scrivere di qualsiasi aspetto della realtà, dai suoi ricordi a Justin Bieber, dalla pittura rinascimentale a Jay-Z, riuscendo a coglierne e raccontarne l’ambivalenza e la complessità. Attraverso la sua scrittura narrativa, di volta in volta sfugge da qualsiasi costrizione e allarga i confini della sua – e soprattutto della nostra – libertà – L’approfondimento

Il romanzo ottocentesco era qualcosa di profondamente rivoluzionario. In una storia c’era dentro tutto un mondo, una rappresentazione totale della realtà senza discriminazioni – puntava alla “totalità rappresentativa”, era la “moderna epopea borghese”. Il criterio era di natura estetica: il piacere della lettura, ma in funzione di questo si poteva scrivere di tutto per arrivare fino al sugo della storia.

Il Novecento complica le cose, e di molto: non si può più attingere alla realtà, ritrarre il macrocosmo nel microcosmo. È una crisi, un cambio culturale, che inaugura una linea che ci ha lasciato Il processo, l’Uomo senza qualità, il giallo monco del nostro Gadda, poi i funambolismi postmoderni su su fino a fine secolo, con Infinite Jest (1996): un malloppone di più di mille pagine in cui è significativo che gli eventi principali dell’intreccio sono fuori proprio dal libro.

Ironia della sorte, per il gioco degli equilibri, mentre i romanzieri sbattevano la testa contro la realtà, chi, effettivamente, scriveva della realtà – il vasto ambito della non-fiction, dai saggi ai giornali, ha iniziato a usare tutto il bagaglio di tecniche dei narratori per parlare del mondo; ed ecco un’altra tradizione che tra giornalismo narrativo, memoir, personal essay (che chi scriva dica “Io”, è ancora un altro discorso) ha inanellato capolavori.

Zadie Smith sta con i piedi in due scarpe. Prima di tutto è una grande scrittrice di romanzi anche se sente più suo l’ambito della fiction, probabilmente. Il suo esordio, Denti Bianchi (Mondadori, traduzione di L. Grimaldi) diventato da subito un classico e un bestseller, tanto che il critico americano James Wood si affrettò a coniare l’etichetta di realismo isterico, che le è rimasta appiccicata addosso. E proprio – precisamente –  in quanto scrittrice di fiction, scrive anche dei saggi inconfondibili, che spesso sono più belli dei suoi romanzi, come dimostra la sua nuova raccolta, Feel Free, appena pubblicata in Italia da Sur, nella traduzione di Martina Testa.

zadie smith

In effetti il criterio che fa da collante agli argomenti della raccolta – proprio come nei vecchi romanzi ottocenteschi – è semplicemente estetico, cioè: i saggi sono veramente belli. Gli argomenti – proprio come nei suddetti romanzoni – estremamente eterogenei, in un continuo saliscendi tra alto e basso: dalla chiusura di una biblioteca nel quartiere dove Zadie Smith è cresciuta, alla Brexit; da Facebook ai giardini italiani (l’autrice ha vissuto due anni a Roma); dal bagno della sua infanzia al rapporto tra letteratura e danza (Swing Time, il suo ultimo romanzo, ha al centro la danza); dai ritratti di Philip Roth a Jay-Z; dalla lettura di Crash di Ballard alla lettura del rapporto tra Justin Bieber e le sue fan, letto a sua volta attraverso il filosofo Martin Buber.

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Parlando di una raccolta di saggi di un maestro della non-fiction come Geoff Dyer (Othewise Known as Human Condition, 2011) Zadie Smith dà l’idea di parlare di sé stessa. Il libro di Dyer – come il suo – si confrontava con una quantità eterogenea di argomenti: fotografia, musica, letteratura, sport, viaggi – “ma l’eclettismo”, scrive, “è meno importante secondo me dell’unità dell’approccio.” “Il suo apparato critico è quello del romanziere: il voyeurismo”. Smith aveva appena citato un passo di Dyer sulle fotografie di Robert Capa e dà un’idea di cosa intenda per questo sguardo, “vuole essere in quelle fotografie, ma vuole anche essere quei fotografi”. Il punto è che Dyer, davanti alla realtà, è portato a chiedersi, “cosa succederebbe se non fossi io? Se potessi essere qualcun altro, fare qualcos’altro? Com’è essere un fotografo? Un musicista? Uno scultore?”.

Qualcosa di veramente simile a come Zadie Smith intende la letteratura, “è un modo di chiedersi: e se le cose fossero diverse da quelle che sono? E una componente centrale della questione è chiedermi: e se io fossi diversa da quella che sono?” (“L’io che non sono io”, e riportata nella quarta di copertina).

Purtroppo il saggio su Dyer non è presente nell’edizione italiana, che è una selezione di quella inglese, a cui è stato aggiunto “Creatività e rifiuto”, il testo di un intervento tenuto al Festival delle letterature di Roma nel 2013, nella traduzione di Silvia Pareschi; aggiunta ottima, da fotocopiare e distribuire in via precauzionale prima di ogni Fuorisalone (“quando una persona viene descritta come ‘creativa’, in genere significa che ha trovato un modo particolarmente ingegnoso per vendervi qualcosa”). Tuttavia, dello sguardo da romanziere qui c’è addirittura una traduzione diretta.

In “Uomo vs Cadavere”, l’autrice racconta di essersi trovata una sera davanti a un libro sulla pittura italiana; lo sfoglia e si imbatte in Nudo virile visto da tergo con un cadavere sulle spalle di Luca Signorelli. Ed ecco lo sguardo romanzesco: “Ho provato a identificarmi con il cadavere. Immaginate di essere un cadavere”. Non ci riesce, e ne nasce una lunga riflessione sulla morte nell’immaginario occidentale, l’identità, il ruolo dell’arte, il “reale” lacaniano, Andy Warhol, Karl Ove Knausgård, Louis CK e gli Iphone.

L’uso dell’attrezzatura romanzesca nei saggi ha a che fare prima di tutto con la tecnica di scrittura (una riflessione illuminante sulle tecnica la fa parlando di Jay-Z in “La casa che ho costruito ad Hova”); quindi, la voce, il linguaggio, le scelte espressive, il punto di vista, il tono, il dosaggio delle informazioni, eccetera : ma questi strumenti, da quando sono nati, tentavano di arrivare a un scopo; appunto rappresentare la totalità contraddittoria della realtà, nel momento in cui questa ci appare sempre più angosciosamente complessa. Per questo, in un saggio su una questione prima di tutto estetica, l’uso della prima persona, (“L’io che non sono io”) scrive, “nel mondo reale spesso vogliamo che i nostri giudizi e le nostre decisioni morali siano qualcosa di rapido, univoco e decisivo. La letteratura complica la nostra percezione di ciò che è possibile fare con quei giudizi. Sospende utilmente il nostro grande e violento desiderio di essere nel giusto su ogni questione, e crea un miscuglio spaventoso e ingovernabile di vero e falso. È il luogo in cui le cose sono contemporaneamente vere e non vere: l’impossibilità estrema”.

Tradurre questa visione nella scrittura della realtà, come fa anche nei suoi saggi, fa sì che il mondo – sia Justin Bieber o il suo bagno – diventi una cosa incredibilmente complessa, piena di sfumature, di aspetti contraddittori, ma per questo precisa, viva e reale. E, infatti, parlando di Dyer cominciava così, citandolo: “sarebbe immodesto affermare che questo libro dia un assaggio di una maniera non insignificante, di essere un uomo di lettere a cavallo tra XX e XXI secolo”. A cui risponde con una contraddizione vivissima. “Sì, Geoff, lo sarebbe. Eppure non sarebbe inaccurato”.

Da questa impossibilità estrema deriva la ricchezza di questi saggi, tutta presi in una torsione tra i loro aspetti diversi e contradditori. Ogni scrittore fa un effetto diverso: di Wallace per esempio qualcuno diceva che la bravura fosse nell’occhio, leggere un suo saggio faceva l’effetto di farsi guidare da un tizio che su qualsiasi cosa posasse lo sguardo, ve la rendesse in una versione iperanalizzata, Zadie Smith, invece, fa l’effetto di una persona che stia pensando ad alta voce; o meglio, di una persona che stia pensando ad alta voce – con naturalezza, cambiando idea, considerando diversi elementi, ricordandosi aneddoti – dentro la tua testa.

Uno stratagemma: spesso il punto di partenza è che cambi idea su un argomento e ne scriva – Cambiare Idea (minimum fax, trad. Martina Testa) è il titolo della prima raccolta dei suoi saggi – come nel saggio su Joni Mitchell (“Questione di accordatura”), che prima odiava, e poi “mi fa questo effetto: lacrime incontrollabili. Un sovraccarico emotivo, stranamente distante dalla felicità, più simile alla gioia – se vogliamo chiamare gioia il riconoscimento di una bellezza quasi intollerabile”.

Questa ricchezza è una base, un primo strato; ma crea un’ambivalenza per cui, per esempio “Blues del nordovest di Londra”, un saggio sulla chiusura di una biblioteca a Willesden, dove pure adotta anche il punto di vista dei consiglieri comunali, per rispecchiamento, del macrocosmo nel microcosmo, diventa un saggio sia sulla chiusura della biblioteca sia sul rapporto tra lo stato e la comunità, e contemporaneamente una critica alla ragione economica che taglia tutto quello che non abbia a che fare col mercato, nonostante sia vitale alle comunità, come appunto le biblioteche.

Così, “Recinti: un diario sulla Brexit”, è un tentativo di cercare di capire i motivi di chi abbia votato Leave: dalla classe sociale, al razzismo (che “non si può ignorare”), all’imperfezione dello strumento del referendum, al ruolo delle classi lavoratrici bianche, a un’autocratica interna alla sinistra del Remain (“Al ceto medio di sinistra piace cosi tanto avere ragione! E allora una bella fetta della classe lavoratrice disagiata ha scelto di mettersi clamorosamente, spudoratamente dalla parte del torto”). Temi che si intersecano continuamente dandone un’immagine prismatica, ma forse più vicina alla realtà di quanto non siamo abituati.

Zadie Smith

Lo stesso sguardo “narrativo” anima le critiche a Facebook (“Generazione perché?”) che ne costituisce l’esatto contrario: è colpevole – tra le altre cose – di dare una versione sottorappresentata, lineare fino a essere quasi binaria, dell’identità individuale, “Un software può ridurre gli esseri umani, ma esistono diversi gradi del fenomeno”, “Facebook, la nostra nuova, amatissima interfaccia con la realtà, è stato progettato da uno studente di Harvard al secondo anno con le tipiche fissazioni di uno studente di Harvard al secondo anno”, evitando qualsiasi sfumatura o complessità.

Si può obiettare che una coerenza, un filo rosso che attraverso i saggi c’è; ed è la libertà, l’essere liberi del titolo. Vero. Però è anche vero, che la libertà – che è anche la libertà di cambiare idea, di non essere definiti dai confini di un’identità – l’idea di letteratura di Zadie Smith e il nocciolo della sua scrittura siano parti di uno stesso intero.

Il rischio semmai –  è il rischio del genere – è la sua autorevolezza; da quale pulpito parla di pittura del Cinquecento? Ne è consapevole, e lo dichiara fin dalla prefazione: “Per loro natura, i saggi che si basano sull’esperienza affettiva di un singolo individuo non si reggono molto in piedi. L’unica forza che hanno è la loro libertà”.

Ed è anche una scommessa. Secondo Zadie Smith quando Philip Roth ha scritto il Lamento di Portnoy, il suo personaggio era un’identità impossibile: “No, non si poteva proprio essere un ragazzo ebreo di Newark che sparava volgarità, era ossessionato dal sesso, mancava totalmente di serietà e di fede religiosa, si masturbava, scopava fettine di fegato e odiava la madre”. Roth stava facendo qualcosa di provocatorio e Roth fu aspramente criticato, ma adesso Portnoy è nell’edizione Library of America, ed è amato tanto che le madri ne regalano una copia ai figli, “le nonne comprano l’audiolibro in un attacco di nostalgia”. Ha creato una libertà, “ha reso possibile l’esistenza di un nuovo tipo di ‘io’: un dono di libertà che è stato raccolto da una generazione di scrittori, da milioni di lettori e alla fine di una comunità globale”. Roth “attraverso una serie strabiliante di alter ego letterari ha complicato, confuso, ridicolizzato, omaggiato, costruito e distrutto tantissime delle nostre idee su cos’è una vita umana, cos’ha di importante, cos’ha di ridicolo, cos’ha di bello e di brutto, di serio e di fondamentalmente buffo”. “Ha messo sulla pagina cose che sembravano indicibili, impossibili, e nel prendere per sé questa libertà, che lo volesse o meno, ce l’ha anche consegnata”. Proprio quello che, parlando del mondo, fanno questi saggi, uno dopo l’altro.

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