Mondadori propone una nuova collana di grandi romanzi presentata ai ragazzi da scrittori contemporanei. Su ilLibraio.it la sorprendente introduzione di Chiara Valerio al capolavoro della Shelley…

In occasione della Fiera dell’editoria per ragazzi di Bologna, dopo gli Oscar Junior Gialli, Rosa e Distopici, Mondadori propone una nuova collana di grandi romanzi presentata da scrittori contemporanei, “per scoprire e riscoprire le più paurose e mostruose storie dei maestri del brivido, con contenuti speciali che spaziano su musica, cinema e fumetto”.

In uscita Dracula di Bram Stoker presentato da Luca Scarlini, Frankenstein di Mary Shelley presentato da Chiara Valerio, Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe presentato da Fabio Genovesi e Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde di Robert Louis Stevenson presentato da Wu Ming 4.

oscar mondadori

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, la sorprendente prefazione della scrittrice Chiara Valerio al capolavoro della Shelley:

IL SARTO, LA RANA, IL FULMINE E TUTTO IL RESTO

  1. Ma frankenstein è nato in indonesia?

Il 10 aprile del 1815 il vulcano Tambora, nell’isola di Sumbawa, in quella che oggi chiamiamo Indonesia, erutta, e la sua eruzione è ricordata come una delle maggiori e peggiori nella storia dell’umanità. E poiché le cose sono sempre collegate l’una all’altra, essa ha avuto almeno tre conseguenze. La prima è probabilmente la disfatta di Napoleone a Waterloo nel giugno dello stesso anno. Il terreno è reso scivoloso dalle piogge, il sole è oscurato dalle polveri, i cannoni affondano e prima di una certa ora non è possibile sparare. La seconda è l’invenzione della bicicletta. Il sole è sempre oscurato, dunque l’agricoltura rallenta. La biada non cresce e se la biada non cresce i cavalli non mangiano, e se i cavalli non mangiano, i cavalli non corrono e gli uomini non vanno da nessuna parte. O ci vanno in un tempo molto lungo. Così Karl Drais comincia a pensare a un mezzo che amplifichi la potenza delle gambe dell’uomo, pensa a un modo di realizzare gli stivali delle sette leghe del Gatto con gli stivali, e si ritrova a disegnare, come molti prima di lui, una ruota.

Il 1816, successivo all’eruzione, viene ricordato come l’anno senza estate: neve alta metri e metri in Nord America, l’Italia coperta da una neve rossa – come in una piaga biblica – e la Svizzera bianca come mai prima e come mai più (finora). Nella Svizzera piena di neve, in una villa sul lago di Ginevra, senza poter uscire, ci sono una ragazza e tre ragazzi. La ragazza si chiama Mary Shelley. George Byron, il proprietario della casa, guardando fuori e poi rivolgendosi ai suoi ospiti dice: “Perché non scriviamo un racconto di fantasmi?”. Mary Shelley scriverà Frankenstein e dunque Frankenstein è la terza conseguenza dell’eruzione del vulcano Tambora,[1] e infatti comincia tra i ghiacci, perché i grandi scrittori, e i grandi romanzi, non sono mai solo metaforici. Mary Shelley, come i suoi protagonisti, è circondata dalla neve e dal ghiaccio.

2. La versione del sarto (nei ghiacci eterni)

La notte è buia e tempestosa. Il veliero è intrappolato nei ghiacci eterni. Il capitano, Robert Walton, scrive ogni giorno alla sorella, raccontandole che il ghiaccio è freddo, è bianco, è eterno. E che sarebbe anche deserto se l’equipaggio non avesse avvistato un uomo, su una zattera. Un uomo enorme. Nella notte buia e tempestosa, il capitano Walton scrive che l’uomo pareva enorme, un mostro, un gigante e un demone. Era grande tanto da poter essere insieme un mostro, un gigante e un demone. Ma la nave è intrappolata e quell’ombra è scomparsa, menomale. Forse era un incubo. Il capitano Walton scrive a Margareth, la sorella, il giorno dopo (anche se tra i ghiacci i giorni sono tutti uguali, e si fermano, e poi riprendono, e pure il tempo si congela) che i suoi uomini hanno avvistato un’altra zattera, e su questa zattera c’era un viaggiatore, stremato, gelato, quasi immobile pure lui.

E cosa si fa con i naufraghi in mezzo al mare, anche quando il mare è ghiacciato? Si salvano. L’uomo si chiama Victor Frankenstein ed è uno scienziato.

Un grande scienziato della medicina, della fisica, dell’archeologia, della botanica e della sartoria, che ha studiato il sistema nervoso, i vasi sanguigni, i tendini, i fulmini, le saette, ed è entrato nelle tombe. Il capitano Walton e l’equipaggio non capiscono bene cosa c’entri la sartoria. E il dottor Frankenstein risponde di aver studiato l’anatomia, l’elettricità, la circolazione del sangue e della linfa e di essere entrato nelle tombe a raccogliere gambe, braccia, teste, ossa e pelle, organi interni e bulbi oculari, unghie e dita, capelli e nei, tutto quello che serve a fare un essere umano. E poi di averlo cucito insieme.

Il buio non turbava la mia immaginazione e un cimitero non era altro per me che il luogo dove riposavano corpi privi di vita, che, da scrigni di bellezza e forza, si erano trasformati in cibo per i vermi. […] guardai il verme entrare in possesso delle meraviglie dell’occhio e del cervello. (Qui alle pp. 58-59)

Il verme entra in possesso delle meraviglie dell’occhio e del cervello… che cosa c’entra la meraviglia con i vermi…?

La meraviglia come può essere viscida? Nella notte buia e tempestosa dei ghiacci eterni, gli occhi del dottor Victor Frankenstein brillano come i lumini dei morti sulle lapidi di un cimitero. E tutti hanno paura. Di lui, con lui, per lui. Perché il dottor Frankestein sta inseguendo il mostro che egli stesso ha cucito. Il demone, il gigante, il mostro. E la creatura, in fondo. Nonostante le apparenze e, ancora di più, nonostante la paura.

  1. La versione della rana (nel laboratorio)

Dissecai una rana, la preparai e la collocai sopra una tavola sulla quale c’era una macchina elettrica, dal cui conduttore era completamente separata e collocata a non breve distanza; mentre uno dei miei assistenti toccava per caso leggermente con la punta di uno scalpello gli interni nervi crurali di questa rana, a un tratto furono visti contrarsi tutti i muscoli degli arti come se fossero stati presi dalle più veementi convulsioni tossiche… Mi accese subito un incredibile desiderio di ripetere l’esperienza e di portare in luce ciò che di occulto c’era ancora nel fenomeno.

Chi scrive è Luigi Galvani (Le forze elettriche del movimento muscolare, 1791), medico, fisico e biologo italiano che alla fine del Settecento si era molto interessato all’elettricità animale. Dissezionava, come dice, piccoli animali e conduceva alcuni esperimenti. Galvani pensava che l’elettricità fosse prodotta dal cervello e distribuita ai muscoli attraverso i nervi e che una parte di questa elettricità fosse conservata nei muscoli, pensava ci fosse una strettissima connessione tra elettricità e vita. Se l’elettricità rimaneva nei muscoli delle rane anche quando le rane erano morte stecchite, forse l’elettricità rimaneva anche nei muscoli degli uomini quando questi erano morti stecchiti. Il dottor Victor Frankenstein comincia a studiare medicina, fisica, biologia, botanica e filosofia naturale in un mondo in cui le zampe delle rane ballavano e saltellavano, anche se le rane erano morte. Comincia a studiare l’elettricità animale in una specie di allegro balletto elettrico. Un balletto elettrico che tuttavia, essendo le rane morte, somiglia subito a una “danza macabra”. Ma Victor Frankenstein è giovane e come tutti i giovani – come me quando lo ero, come voi che leggete – immaginano.[2]

Victor Frankenstein immagina che forse, anche se non può restituire la vita a sua madre che morendo l’ha lasciato solo e dolente, può ricreare una vita. Partendo dall’idea di Galvani e cosciente che, se per la zampetta di una rana è necessaria una piccola quantità di elettricità, per “riavviare” un intero essere umano serve un’enorme quantità di elettricità, capisce che ha bisogno di tutta la forza del fulmine.

Quando mi trovai con quel potere incredibile tra le mani, esitai a lungo sull’uso da farne. Ero in grado di dare la vita, ma preparare una struttura che potesse riceverla, con il suo complesso di fibre, muscoli e vene, rimaneva un lavoro di inaudita difficoltà, di inconcepibile fatica.

(Qui alle pp. 60-61)

Dunque il fulmine e sia-la-luce-e-fu-fatta-la-luce. Come nel libro della Genesi, dalla luce comincia la vita. Come nella mitologia greca, il fulmine, nelle mani di Giove, re degli dei, punisce e crea. Così nelle mani di Victor Frankenstein – il dottor Frankenstein – il fulmine dà vita a un corpo rattoppato fatto con brandelli di altri esseri umani. Se Luigi Galvani si era limitato a far ballare le zampette delle rane, il dottor Frankenstein dà vita a una creatura che respira, cammina, impara, scappa e soprattutto – ma questo il dottor Frankenstein non lo sa ancora – ama e soffre.

chiara valerio

Chiara Valerio

  1. la versione di Sirius Black (nel futuro)

Potrai incenerire ogni altra passione, ma la vendetta mi resterà: la vendetta, d’ora in poi più preziosa della luce e del cibo! (Qui a p. 230)

Il carcere di Azkaban dove Sirius Black, padrino di Harry Potter, è rinchiuso, è protetto dai dissennatori che si aggirano e baciano, così come scrive la Rowling, i detenuti più ribelli, e dal bacio del dissennatore si esce tutti vuoti. Azkaban stesso ti depriva di ogni sentimento, di ogni passione. Li succhia via. Ti avvelena il sangue togliendoti tutto ciò che il sangue porta: la vita. Mi immagino le pareti di Azkaban coperte di muffa dove tuttavia la muffa è l’umido dei sentimenti dei reclusi che evaporano dal corpo e si attaccano ai muri. Solo che il carcere e i carcerieri – come in tutti i regimi, come in tutte le reclusioni – sono stupidi. Così il carcere depriva sì i detenuti delle passioni ma registra, avverte come passioni solo l’amore, la speranza, la felicità, solo i sentimenti buoni, insomma. L’odio, la rabbia, la vendetta non li vede, perché essendo fondato di essi, non li riconosce. Così Sirius Black, che odia (odia Voldemort e i suoi scherani, odia Voldemort e la sua visione e l’uso che fa della magia), riesce a sfuggire ad Azkaban non solo perché si trasforma in cane, ma perché Azkaban non ha potuto togliergli i sentimenti di odio e vendetta, e dunque non ha potuto togliergli la voglia di fuggire.

Prima di Sirius Black, molto prima, anche Frankenstein, quando capisce che per sempre per sempre per sempre gli saranno negati l’amore, la felicità, la gioia e la speranza, si rifugia nei sentimenti che tutti ci vergogniamo di provare, ma che lo mantengono in vita e gli permetteranno di arrivare fino alla nave del capitano Walton, e oltre, nei ghiacci eterni, sfuggendo alle sbarre del rapporto col suo padrecreatore. Ma che cosa chiede Frankenstein dopo aver capito che non potrà trovare amore o accoglienza negli esseri umani?

Una compagnia, una compagna. Frankenstein chiede al dottore suo padre di cucirgli una donna a sua immagine e somiglianza, una donna di toppe di carne con la quale possa sparire per sempre dalla faccia della Terra e vivere lontano dagli occhi impauriti degli uomini e delle donne che lo incrociano. Purtroppo, però, il primo ad avere paura è il dottore. Non vuole creare un altro mostro, il mostro femmina, e così scappa. Prima scappa dal mostro (che però è suo figlio) poi, quando il mostro torna a presentarsi e si presenta come il destino, perché gli fa sparire, uccidendoli, gli amici e l’amore, si mette a inseguirlo per fermarlo (e arriverà anche lui nei ghiacci eterni, dove racconterà la sua storia al capitano Walton). Come tutti, Frankenstein non vuole stare solo. Non vuole, non vuole, non vuole, fa i capricci. Ma i capricci di Frankenstein sono odio e tempeste. Si comporta col dottor Frankenstein, suo padre e creatore, come un adolescente capriccioso che però è dotato di una forza e un odio smisurati.

Mary Shelley

Frankenstein è un romanzo che nasce per gioco. Lord Byron dice agli amici, chiusi in casa per il freddo: “Perché non scriviamo un racconto di fantasmi?”, e nel giro di un anno Mary Shelley scrive Frankenstein. Dove sono, però, i fantasmi in Frankenstein? Ci sono gli zombi forse (Frankenstein è piùzombi che fantasma), ci sono i predatori di tombe, gli scienziati pazzi, una lunga serie di delitti e assassinii, il veliero intrappolato nei ghiacci, le malattie e i dolori, ma i fantasmi no. Dove sono i fantasmi in Frankenstein? Se la caratteristica dei fantasmi è essere invisibili ai più e passare attraverso i muri, allora è possibile che un’altra caratteristica dei fantasmi sia passare attraverso le parole, per esempio da in a di, senza essere visti. I fantasmi non sono in Frankenstein, sono di Frankenstein. Di Victor Frankenstein, il dottore. Victor comincia a studiare per riparare un torto. Solo che il torto di Victor non è un torto, è la vita. Victor pensa che la vita possa essere fatta solo di cose belle e cose buone, e invece la vita è fatta anche di cose contraddittorie (la meraviglia può essere fatta di cose viscide come vermi) o dolorose (la morte di una madre). Victor però vede il dolore come un torto. La morte di sua madre è un torto che deve essere riparato. E, secondo il principio “una vita per una vita”, cuce il mostro. E invece la morte è una cosa che succede ai vivi, non è un torto. E invece, come ha scritto Simone Weil (una grande pensatrice e filosofa dei primi anni del Novecento, che andava in bicicletta, portava piccoli occhialini di metallo e talvolta indossava un baschetto), il limite dell’amore umano è che non possiamo impedire alle persone che amiamo di morire. Non ce la fa Victor Frankenstein, e finora non ce l’ha fatta nessuno di noi. Ma non smettiamo di innamorarci e di amarci, continuamente e talvolta infelicemente. Se poi – nel mondo dove tutti i libri s’incontrano e si intrecciano e forse si correggono e cambiano, come i colori a tempera – Victor Frankenstein avesse potuto avere sulla testa il cappello che in Harry Potter e la pietra filosofale, calcato sulla fronte degli studenti appena arrivati a Hogwarts, determina come smistarli nelle case, forse non avrebbe dato vita al mostro. Non lo avrebbe fatto perché il cappello, vedendo il dolore, l’odio, l’amore, la possibilità, l’entusiasmo e la colpa che stanno, in diversa misura, tutti in tutti noi, gli avrebbe suggerito che forse si può scegliere il bene, si può scegliere la luce. E invece, l’unica luce che Victor Frankenstein vede è il fulmine che illumina il laboratorio e accende la vita nel mostro.

Ero di indole buona e gentile: il dolore ha fatto di me un demonio. Rendimi felice, e tornerò a essere virtuoso.

(Qui a p. 130)

Ma poiché la felicità è difficile, più difficile dell’amore e molto più complicata della morte, allora forse quello che ci racconta Frankenstein è che la felicità è una forma di responsabilità, ed essere felici è l’unico modo per tentare di non commettere il male. Però, poiché come essere felici nessuno lo sa, per cominciare, quando siamo felici, rendiamocene conto.

[1] La storia dell’eruzione del vulcano e delle sue conseguenze me l’ha suggerita Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale. Uno scienziato che studia le piante e dunque è naturalmente abituato a pensare che le cose siano collegate, siano in rete, perché le piante, al contrario degli uomini, sono, ognuna da sola e tutte insieme, una rete. La rete, la trasmissione delle informazioni, il flusso elettrico e sanguigno sono alla base degli studi del dottor Frankenstein. E in effetti, ancora a inizio Ottocento, le discipline scientifiche (e letterarie) non erano divise, venivano studiate, insegnate e spesso capite tutte insieme, come le cose e le conseguenze delle cose. Se l’importante è connettere, ancora più importante è restare connessi anche quando tutto sembra separato, specifico, settoriale. Come adesso. Ripetiamo insieme: rileggere Frankenstein per capire quanto le scienze esatte, le scoperte scientifiche, le macchine, i dispositivi, le Xbox, gli iPhone e i Google Translator partano, come tutto, da un’esigenza sentimentale.

[2] La prima volta che ho incontrato Frankenstein pioveva ed ero tra gli scaffali delle librerie di mio padre e di mia madre su, nelle scale che portano a un terrazzo. Credo che il terrazzo non fosse ancora agibile. Se ne stava lì, nero pece, senza maioliche e senza ringhiere. Era pericolosissimo. Credo che salissi quelle scale più per quel trampolino sul vuoto che per i libri. Ma è stato lì che, illuminato da un lampo, voltandomi verso uno scaffale ho visto questo libretto con la costa gialla, come certi denti sporchi, la copertina rosso sbiadito, come il sangue quando cade sulle maioliche, e il titolo in oro, come le cose che sono preziose. E l’ho aperto, c’era scritto «Alla signora Saville, Inghilterra» e io ho pensato: “Chi è, chi le scrive, e perché?”. Poi un altro lampo, ho guardato il terrazzo di pece, ho ripetuto tra me e me “Saville”, ho acceso la luce e mi sono messa a leggere. Molte ore dopo, quando sono tornata tra i vivi, avevo un’idea più precisa dei fulmini e delle loro possibilità.

 

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