Viola di Grado torna in libreria con “Fuoco al cielo”, una storia d’amore appassionata e folle, ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto e ambientata in un villaggio siberiano… – Su ilLibraio.it un estratto

Dopo Settanta Acrilico Trenta Lana, romanzo d’esordio pubblicato da e/o nel 2012, vincitore del Campiello Opera Prima, e libri come Cuore Cavo e Bambini di ferroViola di Grado torna in libreria con Fuoco al cielo (pubblicato, come i precedenti due, da La Nave di Teseo), una storia d’amore appassionata e folle, ambientata in un villaggio siberiano, il luogo più radioattivo del pianeta.

Di grado_Fuoco al cielo

L’autrice, classe ’87, ha vissuto a Kyoto, Leeds e Londra, e per scrivere il suo nuovo libro ha preso ispirazione da un fatto di cronaca che disorientò il mondo.

La “città segreta” non è solo un luogo reale di distruzione e di relegazione forzata, i cui danni superano Chernobyl, ma anche il nodo più intimo e pericoloso di ogni rapporto amoroso, dove i confini tra il sé e l’altro si perdono e basta una parola, un gesto, un grumo di silenzio per far crollare ogni cosa o metterla per sempre in salvo.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto:

“Toc toc, sorpresa, spero tu sia solo.”

Vladimir la prendeva in braccio come una ragazzina. Si accoppiavano a terra, sulle assi irregolari, sulle briciole di torta kievskij, nell’angolo della casa dove arrivava il sole, vicino al catino. Credevano che i corpi fossero un dono di Dio, tane perfette per mettersi al riparo dagli agguati della mente. Era un modo sicuro di amare, stare nella pelle per non stare nell’abisso, e lei aveva l’abisso nella testa, dappertutto, un fondale nero.

“Mi manchi sempre, anche quando sei qui con me.” E anche: “Ti ho aspettato tutto il giorno. Non ho fatto nient’altro.” 

Giocavano a scacchi sul tavolino di legno, seduti sul divano a righe verdi, lui la lasciava vincere e non lo dava a vedere. C’erano quadri alle pareti. Città sconosciute, in festa, cieli tersi di un azzurro carico. Il ritratto di una donna seria con il corpo piatto e stretto di una bambina, braccia conserte, seduta su una sedia in vimini, in un posto luminoso che forse era la Spagna, forse un posto inventato. Lui era stato nel mondo. In Europa, da giovane, con i suoi genitori. Di quel viaggio le aveva raccontato solo la sensazione dell’estate nelle grandi città: un senso di sicurezza e di possibilità, l’odore di gasolio e di asfalto riscaldato dal sole.

Le passava le dita tra i capelli crespi, una palla di polvere. I cani randagi volevano entrare, grattavano con le zampe sulla porta in legno scuro ingrossato dal freddo. I cani guaivano, infreddoliti e soli, ma loro non aprivano mai. Lui voleva aprire, conservava per loro ossa di pollo e renna accatastate, sul retro, e coperte vecchie. Lei no, non voleva vederli, odiava lo sguardo dei cani, tutto quell’amore allo scoperto, quel bisogno. Si gelava, meno trenta, meno quaranta. Pelle d’oca, dita fredde come chiodi. Un piccolo fuoco arancione crepitava nella stufa a muratura. 

“Ti amo anch’io.” E anche: “Ti penso tutto il giorno e tutta la notte.” E anche: “Non posso stare senza di te nemmeno un minuto.”

Parlare è sempre meglio del silenzio e del rumore del vento sui vetri. Dei latrati dei cani e degli schiocchi di lingua, lingua e denti, raschiare e sbattere sullo stipite, e la pioggia che picchiava le bottiglie di birra e i calcinacci, là fuori, mentre faceva buio, più buio, più buio. Parlare era meglio di pensare, dormire soli su un letto freddo, occhi gonfi, ricordi fermi in gola o nella pancia, faccia al muro.

“Non mi abbandonare mai, promettimelo, adesso.” E anche: “Se te ne vai io muoio.”

Sudore, saliva, e la vaselina vischiosa per il gelo, petto a petto, bocca a bocca, felici, incollati bene, un umano selvatico a due teste. Questo era prima.

Prima che tutto si rompesse. 

Va avanti da giorni. Da mesi. Da anni. Almeno due. 

Gridano fino a perdere la voce. Lottano con i pugni stretti e gli occhi gonfi, le mascelle serrate. Girano per la casa come topi. Si chiudono nella stanza da letto, lei si chiude lui resta fuori, oppure si chiudono insieme e non accendono la luce, restano al buio e lei piange, e il suono del pianto si mescola alla pioggia e ai tuoni, lui la consola oppure la scuote per le spalle, le dice che la ama o le dice che la odia, esce dalla stanza, esce di casa e poi ritorna, tutto bagnato, lei gli dice che non doveva tornare o che sistemeranno tutto, o non dice nulla perché non ha più voce o non ha più emozioni.

Ha piovuto molto.

Moltissimo.

Per un mese lo stipite in legno della finestra del bagno, deformato dal freddo, ha lasciato entrare l’acqua inondando la scatolina di cartone gialla dove lei tiene i cerotti e il Cristo fluorescente. Le federe e le felpe stese al chiuso si sono asciugate in pose rigide assumendo un odore acre.

C’è stato Natale, poi Capodanno, poi c’è stato solo tempo, settimane qualunque, e l’albero è rimasto in salotto accanto allo stendino e al divano sdrucito. Una volta la stella cometa in metallo è caduta dalla cima, facendo un rumore discreto che però nel silenzio estremo è sembrato un grido e lei si è svegliata dallo spavento nel cuore della notte e non ha trovato lui accanto; lui era in cucina, al buio, da solo, seduto con la schiena rigida e un bicchiere vuoto in mano, e le è sembrato improvvisamente vecchissimo.

È febbraio.

La temperatura è scesa di otto gradi. Sono usciti i topi. Si accoppiano dietro il muro della camera da letto, si spostano febbrilmente lungo le pareti come schiuma nera, poi scompaiono in buchi invisibili, poi riappaiono all’improvviso sotto i tavoli in ciliegio o dietro l’armadio a muro, una volta dentro il samovar mezzo pieno di zavarka. Le trappole restano vuote, i topi restano vivi, fanno rumore poi silenzio, si scambiano informazioni attraverso le feci. Bisogna lavarsi più volte le mani, lei strofina forte le dita finché non sono rosse, bisogna proteggersi dalla leptospirosi, lui le dice che c’è molto di peggio nell’aria, nel fiume, e lei lo sa, porca troia, lo sa bene ma fa finta di niente perché è pazza, lo sono tutti, lo sono tutti in quel villaggio maledetto dimenticato da Dio.

A volte un odore sordido sale dal fiume e sono costretti in casa, insieme, le finestre chiuse.

A volte lei gli dice che lo ama, lo ama davvero, ma suona come una minaccia. A volte lui dice che se ne va, indossa il cappello imbottito e il cappotto di renna ma poi non esce di casa. A volte esce davvero, e lei lo aspetta accanto alla porta come un cane. A volte, la notte, mentre fuori i lampi tagliano il cielo, i loro corpi si stringono nel letto in una furia di muscoli e pelle, ma non c’è dolcezza né desiderio, solo carne gelida che ha fretta di scaldarsi. 

Vivono insieme a Musljumovo, un villaggio incassato nei monti Urali, in un angolo gelido e angusto al confine sudoccidentale della Siberia. Strade deserte, cielo lattiginoso, conifere scure incurvate dalle bufere. Una chiesetta in pietra bianca con piccole finestre – le crepe chiuse dallo stucco, una cascata di martiri dallo sguardo fisso affrescati sui muri, su fino a Cristo, nel buio del soffitto, le mani magre inchiodate.

Mucchi di case.

Case basse, grigie, muri sottili. Addossate al fiume Teca, su entrambe le sponde, o più avanti, in periferia, sulla strada sterrata dietro la fabbrica di colla o nei campi gialli dove prima si portavano le capre a brucare, e adesso è proibito.

Mucchi di case.

Case vuote sconquassate che rovinano contro il cielo, rivestimento fradicio, tetto sfondato. Un segnale scolorito sulla statale, venendo da Sverdlovsk, avverte di procedere a massima velocità e non fermarsi mai, per nessun motivo, per i successivi trenta chilometri. 

Lottano dal giorno in cui è successo: l’11 luglio 1994.

Lei aveva trentanove anni e le gambe secche e passava le notti in discoteca, con una minigonna in poliestere ghepardata e tacchi quadrati in ecopelle, roba da discount, per attirare i maschi a basso costo. Anche se aveva un figlio dentro, un essere nell’utero che si nutriva di lei, cosa che continuava a sembrarle strana e pericolosa e incomprensibile. Anche se il suo uomo pallido e goffo le scriveva lettere d’amore e le metteva fiori freschi sul cuscino, ma erano solo manovre maldestre per tenerla stretta, farla propria come una macchina nuova.

In realtà all’inizio Tamara non voleva attirare nessuno, era il suo modo di distrarsi, travestirsi da una che si gode la vita, nascondendo la sua faccia magra e avvilita e piena di affossamenti sotto uno strato spesso di fondotinta finché non era una faccia generica, senza segni particolari, senza sogni particolari, ridisegnando la bocca e il contorno degli occhi finché non erano la bocca e gli occhi di qualcun’altra, una che se la incontravi per strada nemmeno la vedevi, umana tra gli umani, formica tra le formiche, un’altra così altra da passare inosservata persino a se stessa, così altra che quando la tristezza puntualmente sarebbe venuta a prenderla non l’avrebbe riconosciuta più: l’avrebbe lasciata finalmente in pace.

(Continua in libreria…)

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