Riconosciuto come uno dei più grandi artisti del Novecento e definito il “Van Gogh italiano”, Antonio Ligabue è protagonista del romanzo di  Carlo Vulpio “Il genio infelice”

Se c’è un’artista italiano che nel Novecento ha seguito una direzione ostinata e contraria, si chiama Antonio Ligabue (1899-1965). Nato a Zurigo da una ragazza madre di Belluno, figlio di tre padri e da ciascuno di essi abbandonato, fragile ma orgogliosamente solitario, autodidatta, geniale e visionario, “Toni al mat” – il matto, così veniva chiamato nella Bassa padana – è il testimone di un secolo di distruzione e follia. Lui rappresenta ciò che vede, e vede ciò che sogna. Amplifica la realtà, immortalandola.

La sua vita e le sue opere denunciano il folle ritiro dell’uomo dalla natura, che diventa un’estranea su cui esercitare il proprio dominio. Ligabue si ribella ai comandamenti di ordine e disciplina, mal tollera ogni conformismo, non per scelta ma assecondando un istinto primordiale che lo porta a trovare pace e meraviglia solo di fronte agli animali, reali o immaginari, anche trasfigurandoli, per rappresentare la ferocia degli uomini e la vita come un’eterna lotta di prevaricazione, non di sopravvivenza.

In un periodo come quello che stiamo vivendo, che soffoca la fantasia e obbliga le persone a stili di vita e schemi mentali non scelti, o almeno non voluti, Il genio infelice (Chiarelettere), romanzo biografico firmato dal giornalista Carlo Vulpio, racconta in forma di romanzo una storia tormentata ed esemplare, che è anche un potente manifesto libertario. Un inno alla creatività, alla natura e alla bellezza.

Una storia, quella di Ligabue (riconosciuto come uno dei più grandi artisti del Novecento e definito il “Van Gogh italiano”), tanto preziosa e significativa da essere immortalata prima in un celebre sceneggiato Rai della fine degli anni Settanta, con Flavio Bucci protagonista, e oggi in un film per il cinema, annunciato per il 2019, con Elio Germano nei panni dell’artista.

 

 

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