“Avengers: Infinity War”, il nuovo film Marvel diretto dai fratelli Russo, rappresenta l’ennesimo trionfo dei film di supereroi. Quali sono le ragioni per cui li amiamo? E, soprattutto, come usiamo questa specie di mitologia condivisa? Per parlare di successo, per esempio. Come nel caso di Mark Zuckerberg, che ha declinato la figura del supereroe in diversi modi – L’approfondimento

Il successo dell’ultimo film degli Avengers, Infinity war (diretto dai fratelli Anthony e Joe Russo), dimostra inequivocabilmente che, non solo i supereroi, ma addirittura i film che li ritraggono hanno i superpoteri.

Per i canoni Hollywoodiani è un film impossibile: è troppo lungo (due ore e quaranta minuti); ha troppi personaggi (settantasei); è costato troppo (300 milioni di dollari); e, soprattutto, per capirci qualcosa occorre aver visto almeno la maggior parte dei diciotto (diciotto!) film precedenti dell’Universo Cinematografico Marvel.

La struttura di Infinity War è teoricamente inadatta al successo, in relazione all’investimento enorme, ma non lo sa, e quindi spicca il volo. Nel primo weekend al box office globale ha incassato 630 milioni di dollari, la cifra più alta di sempre. La critica e il pubblico lo hanno accolto favorevolmente: i suoi tratti più epici ed eccessivi (per cui viene venduto come “il più ambizioso crossover della storia”, suscitando una certa ilarità) sono il risultato di una strategia decennale che connette tutti i film precedenti, coerente con il suo universo finzionale. Poteva andare storta qualsiasi cosa, ma pare di no.

Mentre il cinema attraversa un momento critico per la concorrenza di altri media, che si è tradotto in una perdita di rilevanza culturale, i cinecomic si sono imposti come la linfa vitale dell’indotto. “Tutto sembra rotto” –  argomentava Sean Fennesey su The Ringer – “eccetto i film di supereroi, che sono indistruttibili”. Questi, notava, mettono d’accordo la critica, il pubblico e il portafogli. E Hollywood sembra essersi specializzata in un unico genere.

Capire il perché è uno strano esercizio di vertigine di fronte all’estensione del dominio delle informazioni sulle cose che amiamo. Si va dall’escapismo (“Stasera ho voglia di qualcosa di leggero, tipo un film di supereroi”) a questioni tecniche, come i risultati ottenuti con la CGI e le camere IMAX. Si sottolinea il ruolo delle community di fan dei fumetti; e anche ragioni produttive: un supereroe, in quanto simbolo condiviso, consente di assumersi dei rischi esportando un film in tutto il mondo senza dover ingaggiare star immediatamente riconoscibili; o ancora, la fiducia riposta in registi emergenti e non legati ai cinecomic che hanno dato nuove idee a un genere già trainato dal modello alto del Batman di Christopher Nolan e ovviamente da quello dei fumetti (citofonare Watchmen, capolavoro di Alan Moore).

O ragioni culturali profonde: la continuity dell’Universo Marvel è sfruttata per creare un franchise transmediale (dal 2009 di proprietà della Disney) che connette mondi diversi – quello di ognuno dei suoi eroi, e così facendo riflette una caratteristica fondamentale in qualunque narrazione contemporanea. In Cultura convergente (Apogeo, 2007) Henry Jenkins sostiene che, se le società basate sulla caccia giocavano con arco e frecce, nella nostra, basata sull’informazione, costruiamo enormi universi narrativi. Se una volta per una buona storia bastava la trama, e fino a qualche tempo fa degli ottimi personaggi capaci di attraversare il su e giù di prequel e sequel, oggi premiamo il world building: ci orientiamo in enormi spazi narrativi, complessi e pieni di connessioni come il mondo reale, ma che ci rassicurano per la loro coerenza.

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Del resto, il successo dei supereroi è vecchio quanto l’uomo. E anche i fumetti non scherzano. Per esempio – raccontava Umberto Eco nel Mito di Superman durante la Seconda Guerra Mondiale erano popolari le vicende di Terry and the pirates, di Milton Caniff; quando Caniff decise di far morire un personaggio, Raven Sherman, i giornali ne diedero ufficialmente l’annuncio, nelle Università si osservarono minuti di silenzio e l’autore fu pure costretto a giustificarsi in radio.

Se risalire la catena delle cause è difficile, forse è più interessante vedere come usiamo questa specie di mitologia condivisa. Insomma, dov’è il punto in cui la finzione si fa una pausa e decide di confondersi con la realtà.

Fatto abbastanza inedito, un cambio di paradigma profondo come quello della rivoluzione digitale, oltre ad essere fatto di sistemi e algoritmi, è composto da facce e nomi.

Non è l’universo della Marvel quello in cui c’è chi tenta di dimostrare che un’azienda tecnologica (Google) sia nientemeno che Dio; e si intende teologicamente (è onnisciente, è ovunque, risponde alle preghiere, eccetera); né quello dove il professor Etzioni indirizza una lettera a Jeff Bezos supplicandolo di salvare la sanità della più importante potenza mondiale, poiché – cito – “solo tu hai la visione, l’ambizione, il capitale, la potenza computazionale che richiede la missione”. Né quello dove un trentatreenne, a capo di un’azienda che è prima di tutto è un simbolo, si incarica di dover fare di più per “tenere al sicuro le persone”, come ha fatto Mark Zuckerberg, dopo essere stato ascoltato da un Senato americano preoccupato per la tenuta democratica dei paesi occidentali. Zuckerberg ha ricevuto delle domande anche dal senatore Patrick Leahy, che compare – come senatore, naturalmente – in Batman v Superman: Dawn of Justice, un film in cui il Senato americano interroga Superman più o meno per le stesse ragioni. Qualcosa di reale, ma così reale da avere una patina cinematografica, sembra aleggiare intorno ai giganti tecnologici e ai loro fondatori.

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Anche la Marvel contribuisce attivamente, come quando, in Captain America: Civil war, il Segretario di Stato americano chiede “Come definireste dei soggetti residenti in America con abilità sovraumane, che ignorano ripetutamente la sovranità e impongono la loro volontà a proprio piacimento e, che, francamente sembrano indifferenti a ciò che si lasciano alle spalle”, ma ci sono punti di contatto più sotterranei.

Le storie delle origini dei Supereroi, in effetti, risolvono alcuni paradossi del modo con cui parliamo di autorealizzazione personale. Riflettono in una struttura narrativa coerente l’imperativo a essere se stessi, la tacita convinzione di essere speciali, il lavoro duro (per cui se ti impegni davvero puoi ottenere quello che vuoi) e le aspettative sulla velocità e la potenza nella conquista del successo.

Il supereroe è eccezionale: in qualunque modo riceva i suoi poteri, questi diventano il nucleo della sua identità. Tony Stark quando annuncia “Io sono Iron Man”, annulla la differenza tra l’uomo e l’eroe (e la doppia vita, clichè del genere, già in crisi con il primo Batman di Nolan). Quindi, l’eroe è se stesso; da questo dipende la sua vocazione, nel senso che risponde alla chiamata della sua natura. Ma bisogna imparare a usarli i poteri e infatti c’è un periodo di apprendistato. Nei film solitamente è una sequenza accelerata, per l’ovvia ragione che, insomma, guardare ore di progressi graduali non è divertente. L’Antico chiede a Doctor Strange come è diventato dottore. “Anni di studio e pratica”. Non se ne esce, lo stesso modo in cui si sviluppano i poteri a quanto pare. Ma nella scena dopo lo spedisce sull’Everest: ha mezz’ora di tempo, o impara o muore. Impara, e sfoggia da subito un pizzetto orientaleggiante, segno del suo cambiamento interiore. Naturalmente poi l’eroe ha una visione positiva della natura umana, che lo distingue dal villain. Capitan America, in un momento critico dove è in dubbio la sua figura, sottolinea di “avere fiducia nella gente, negli individui”.

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Se l’equazione tra Elon Musk e Iron Man si impone in modo scontato, visto che il Ceo di Tesla, Space X, The Boring Company oltre ad aver ispirato il personaggio di Iron Man è addirittura comparso in Iron Man 2, la narrazione superomistica di Zuckerberg invece ha un’aria vagamente inquietante.

Zuckerberg ha declinato in diversi modi la figura del supereroe. Prima era una variazione del nerd antisociale e geniale in salsa superumana. Il suo potere sarebbe il talento nella programmazione, interpretato come una caratteristica innata, parente della magia (Thor: “I vostri avi la chiamavano magia e voi la chiamate scienza). Infatti, è qualcosa di eccezionale,ha delle origini cosi profonde da essere una vocazione. A a 12 anni crea la rete di famiglia, Zuck-net e a 19 rifiuta un milione di dollari per il suo Synapse media player perché – è il sottotesto – è predestinato a qualcosa di più grosso. Addirittura, si è sempre speculato su una sua diversità aliena o artificiale. Anche nel profilo con cui il Times lo nominava persona dell’anno nel 2010 si dice che vede le persone come un set di dati e una conversazione come uno scambio di informazioni: se non ha dati da trasmettere crolla nel silenzio.

La sua è la storia di qualcuno di eccezionale con un potenziale enorme e innato, parte della sua identità. Imparato velocemente a controllarlo (la prima versione di Facebook è stata creata in due settimane) altrettanto velocemente ha acquisito un potere infinito. Certo, ha una visione positiva dell’umanità, “Io sono fondamentalmente ottimista sulla natura umana e sulla nostra possibilità di usare la tecnologia per il bene”; e una missione “Facebook non è stata creata originariamente per essere un’azienda. È stata creata per assolvere a una missione sociale – per rendere il mondo più aperto e connesso”.

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Poi c’è stato il periodo in cui doveva imparare a fare il Ceo. Superpoteri? I suoi sensi di ragno – come si legge sull’Atlantic – per acquisire al momento giusto la società giusta, come successo con Whatsapp e Instagram (in realtà, entrano in gioco i dati). E, anche oggi, con la crisi di percezione collettiva di Facebook, la sua narrazione è quella del paradosso del supereroe: nel tentativo di fare il bene collettivo, esercitando il suo potere, finisce per fare il contrario a forza di danni collaterali.

E, indubbiamente, ci mette del suo: ha una un costume tipico. Ha letteralmente un armadio pieno di sole t-shirt grigie. E, soprattutto in una specie di cortocircuito simbolico, nel 2016 ha deciso di creare, per casa sua, la stessa intelligenza artificiale che ha Stark nella saga Marvel, Jarvis. Robert Downey jr si è offerto di prestargli la sua voce, ma Zuckerberg ha preferito chiedere più sobriamente a Morgan Freeman, che nell’immaginario collettivo presta la voce a Dio, in un quello che sembra un deliberato tentativo di ordine nelle gerarchie celesti.

Zuckerberg semplicemente è esemplare. Ma è la narrazione dei supereroi a diventare sempre più una struttura familiare. Per esempio, la applichiamo anche all’esplosione dei talenti sportivi. O al game da vincere dei rapper, che in origine era una specie di sineddoche per il successo di una comunità. Si potrebbe pure, a torto o a ragione, giocare con la sociologia: dimostrare di avercela fatta – in termini da supereroe: sulla base di chi sei, della tua eccezionalità, velocemente e senza limiti – diventa più importante se lo sfondo è un contesto geopolitico in cui il benessere è un bene scarso che non può essere disponibile sia per l’Occidente sia per il resto del mondo. Significa segnare una differenza simbolica tra un io e gli altri in una specie guerra orizzontale che ci propone di continuo dilemmi morali, proprio come quella di Infinity war. Se sia questo il motivo per cui ci immergiamo nelle storie dei supereroi e le usiamo per parlare del mondo è difficile dirlo. Infatti, restano delle domande aperte. Perché, per esempio, abbiamo un’idea dell’identità come di qualcosa che casca dal cielo?, e del successo come il compimento di un destino su noi stessi? E in chi ci immedesimiamo?, o meglio, di quali eroi pensiamo di avere il bisogno? Quali pensiamo di meritarci?

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