Esperto di cultura digitale, Massimo Mantellini è l’autore di “Bassa risoluzione”, saggio che mette in luce i cambiamenti che internet ha portato nelle nostre vite: “La scommessa di questo libro è dimostrare che quando riduciamo il nostro orizzonte d’attesa non compiamo necessariamente una scelta negativa”, spiega l’autore a ilLibraio.it. Nell’intervista sostiene, tra l’altro, che “gli strumenti digitali enfatizzano comportamenti che appartenevano al genere umano ben prima di internet”, e che è quindi “sbagliato fare un bilancio positivo o negativo del fenomeno”

Massimo Mantellini, classe ’61, è uno dei più autorevoli esperti italiani di internet: si occupa di cultura digitale e politica della rete e, sull’argomento, tiene uno dei blog più seguiti in Italia: Manteblog. Il suo nuovo saggio, Bassa risoluzione (Einaudi) riflette sull’impatto che internet ha avuto sulle nostre vite.

 

Massimo Mantellini Bassa risoluzione copertina

Nel momento in cui la rete ci ha messo a disposizione una quantità incalcolabile di possibilità, facendole sembrare tutte a portata di mano, il nostro orizzonte d’attesa sorprendentemente si è ridotto, dando vita a una generazione a bassa risoluzione, fondata su “un’idea di riduzione che crea valore”.

L’idea di fondo del saggio è che la tecnologia ci ha portato a scegliere, tra le tante opzioni, il procedimento più semplice, meno approfondito, anche qualitativamente; una tendenza alla superficialità che va a pervadere diversi aspetti della nostra quotidianità, dall’ascolto della musica fino ai mobili Ikea e ai voli Ryanair. Massimo Mantellini mette in luce queste scelte, evidenziando i mutamenti sociali che ne derivano.

Mantellini, quali sono le caratteristiche essenziali della “generazione a bassa risoluzione” di cui parla nel suo libro?
“Si tratta di un numero sempre più elevato di persone che negli ultimi anni ha avuto a disposizione nuove tecnologie; questo ha portato una buona parte della popolazione a mediare il proprio approccio alla cultura, intesa in senso lato, dall’informazione alla comunicazione, dall’arte alla musica. Il rapporto con la cultura è cambiato, abbiamo selezionato solo una parte di tutte quelle possibilità che la tecnologia ha offerto”.

Un esempio?
“Abbiamo cominciato ad ascoltare la musica su formati che sono, anche da un punto di vista qualitativo, molto inferiori a quelli analogici. Abbiamo smesso di usare la macchina fotografica e l’abbiamo sostituita con il cellulare, invece di stampare le foto in carta lucida le pubblichiamo su una pagina web”.

A scapito della qualità.
“Il filo conduttore del libro è che questo insieme di comportamenti sia riconducibile a un denominatore comune, che non è necessariamente la tecnologia: il caso di Ryanair ne è un esempio. Il punto è che quando il ventaglio di scelte si moltiplica esponenzialmente, non sempre scegliamo l’opzione più articolata e complessa”.

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Una perdita di aspettative causata dal digitale?
“Credo che la domanda più importante sia: quanta parte della nostra interpretazione della realtà è legata alla tecnologia? La mia idea è che gli strumenti digitali enfatizzino una serie di comportamenti che appartenevano al genere umano ben prima di internet. Uno dei più grandi limiti dell’interpretazione sociologica del digitale è l’imputare alla tecnologia caratteristiche che appartengono al genere umano da sempre”.

Il punto non è lo strumento, ma chi lo usa.
“Non la considero una colpa: un’altra piccola scommessa di questo libro è dimostrare che quando riduciamo il nostro orizzonte d’attesa non compiamo necessariamente una scelta negativa. Interpretiamo, molto spesso in modo intelligente e complesso, le offerte, scegliendo quelle che ci sembrano migliori. È una lettura culturale del mondo”.

La “generazione a bassa risoluzione” segna un punto di non ritorno? 
“Negli ultimi anni abbiamo vissuto un’accelerazione, legata all’ascesa di internet, che non si vedeva da molto tempo. È sbagliato fare un bilancio positivo o negativo di questo fenomeno, un po’ come quando si tratta del modificarsi del nostro cervello: la corteccia celebrale ha subito delle mutazioni legate all’utilizzo di nuove tecnologie, una questione molto dibattuta e, spesso, considerata negativamente. Ma il punto è che il cervello umano ha sempre subito cambiamenti nel corso dei secoli, fa parte dell’evoluzione”.

Non significa che il cambiamento sia negativo.
“Noi cambiamo, questo è un paradigma. Ma il cambiamento viene quasi sempre vissuto come una sorta di delusione, un peggiorarsi della società. Anche quando è stata inventata la stampa a caratteri mobili qualcuno sosteneva che fosse un disastro”.

Come accade oggi con la tecnologia.
“Eppure è un fenomeno che fa parte della continua rielaborazione del cervello complessivo di tutti quanti noi: vi sono aspetti problematici, ma vi sono anche le frontiere del futuro”.

Cosa direbbe a chi ritiene che la tecnologia, i social network in particolare, siano responsabili del degenerare di certi atteggiamenti online?
“Il fatto è che siamo molto giovani nell’utilizzo di questi strumenti, come dei bambini: sono novità che non abbiamo ancora imparato completamente a padroneggiare e ci vuole del tempo per acquisirne consapevolezza. Per quanto riguarda i social credo che la questione sia molto semplice: è un problema di cultura generale che si unisce a risorse potentissime molto mal utilizzate. Da questo a colpevolizzare le persone il passo è lungo”.

Crede che sia possibile rendersi immuni dagli effetti negativi che la tecnologia può avere sulla nostra vita?
“Credo che non dovremmo essere immuni, dobbiamo interpretare la mutazione: è importante rendersi conto che non esiste l’opzione in cui torniamo al fax e consultiamo i libri di carta piuttosto che Wikipedia. Non solo non è possibile, ma significa anche non capire che nuovi strumenti impongono nuovi ragionamenti: opporsi alla bassa risoluzione non significa opporsi alla tecnologia, ma imparare a usarla meglio, interpretare diversamente gli strumenti digitali affinché il nostro approccio sia più approfondito possibile”.

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