Intervista a Piergiorgio Odifreddi autore di Il matematico impenitente ISBN:9788830425651

Dopo il successo di Il matematico impertinente, Piergiorgio Odifreddi ritorna ad esplorare i territori della galassia logico-matematica e dei suoi pianeti. La sua ultima fatica, Il matematico impenitente, contiene saggi e articoli su temi cari all’autore, cui si aggiungono considerazioni sulla religione, l’attualità politica, la lingua e la letteratura. L’occhio del logico e del matematico osserva i fenomeni e gli uomini, ma è un occhio freddo, capace di vedere le cose senza pregiudizi, di osservare (e giudicare) i più svariati eventi del presente e del passato. Lungo il percorso tracciato dal libro si incontrano Galileo, Einstein, Fermi, Newton, Kant, Dante, gli scacchi, la magia, i computeO. Un viaggio di esplorazione attraverso gli enigmi, i misteri (e talvolta le miserie) dell’intelligenza (artificiale e non), nel segno di una logica che viene assunta a paradigma e metafora della corretta igiene mentale. Il direttore di InfiniteStorie.it ne ha discusso con lo stesso Odifreddi.

MARIO BIONDI. Mi permetta di giocare un po’ a fare l’impertinente. “Ciò che è reale è razionale, e ciò che è razionale è reale”. Sacrosanto: ma come la mettiamo con i numeri “irrazionali”? Come fanno a essere insieme “reali” e “irrazionali”? Il “razionalista” (quorum ego) non si consente qualche generoso margine di impunità?

PIERGIORGIO ODIFREDDI. Oh, non c’è problema a coniugare realtà e irrazionalità: basta guardarsi attorno, per notare che semmai è l’irrazionalità a imperare, nel mondo reale! È stato Hegel, che ha coniato il motto, a illudersi sulla coincidenza tra reale e razionale: ma è una bella illusione, alla quale indulgono anche gli scienziati della natura, almeno fino a quando non hanno a che fare con gli uomini…

B. È senza dubbio inquietante che qualcuno abbia ritenuto di dover ponzare su certi strilli di G. Semerano, secondo il quale l’infinito, più che essere “polveroso”, rimanderebbe tanto per cambiare al fatidico “polvere tu sei e in polvere tornerai” del Genesi, mettendo così in riga l’ápeiron di Anassimandro. Ma che cos’è l’infinito? Lo Spazio-Tempo è “infinito” o “finito”? Dov’è la “ratio”, ovvero la “misura”?

O. L’infinito si può intendere in due modi diversi e antitetici: come potenzialità della realtà, o come limitazione della conoscenza. Stranamente, quest’ultima concezione è proprio quella della matematica moderna, che considera i vari infiniti coi quali ha a che fare come un segno della limitatezza del nostro pensiero. Ciò detto, non sappiamo ancora se l’universo sia soltanto illimitato, ma finito, oppure veramente infinito: e forse questa è un’altra manifestazione della nostra limitazione (speriamo temporanea).

B. Secondo lei la matematica dev’essere mostrata nella “sua vera veste di Regina delle Scienze e dell’Umanesimo”. Assolutamente d’accordo. Quindi temo di essere del tutto in disaccordo con la riduzione dell’ “umanistico” a “mitologico, religioso, filosofico”. Nient’altro? Niente di più? Non ho mai capito se sia davvero lo spirito “umanistico” a porsi in contrasto con quello “scientifico”, o non viceversa.

O. Non credo che ci sia contrasto o contrapposizione, fra i due “spiriti”: piuttosto, direi, complementarità. In fondo, essi sono l’espressione dei due emisferi del nostro cervello (il pensiero scientifico del sinistro, e il pensiero umanistico del destro), e non è un caso anzitutto che abbiamo due emisferi, e poi che essi siano collegati fra loro, e non agiscano indipendentemente!

B. Avendo pubblicato 12 romanzi, mi sono sempre ostinatamente definito un (buono o cattivo) “narratore”. Per un paio di miei romanzi ho addirittura usato qualche concetto matematico, numeri primi eccetera. Ma niente di più di “qualche concetto”, su cui poi lavorare con la fantasia, perché non sono così sicuro che i giochi matematici producano vera “narrativa”. Non crede che la gabbia del gioco matematico possa porre limiti fatali alla fantasia, all’invenzione, insomma alla “fiction”?

O. Vorrei rispondere citando Queneau, che diceva: “il classico che segue regole formali è più libero del poeta moderno che scrive ciò che gli passa per la testa, ed è schiavo di regole che non conosce”. Ma per non eludere la domanda, direi che la letteratura, e più in generale l’arte, permettono due approcci: quello classico e strutturale, appunto, e quello romantico e destrutturato. Immagino che sia una questione di gusti sia per chi produce, che per chi consuma, privilegiare l’uno o l’altro.

B. Lei scrive che per “l’umanista vecchio stampo… la realtà coincide con la finzione letteraria”. Guardi che è molto di più: il “narratore” è convinto di creare una “realtà altra” (ma non per questo meno “razionale”) rispetto a quella “reale”. La finzione letteraria è la “sua” realtà. Così facendo (e “ragionando”), il “narratore” pensa di levare una piccola sfida a Dio e alla sua realtà. L’ho letto in tanti bestelleristi, ma soprattutto nel sommo Isaac B. Singer, forse il più ostinatamente e coerentemente scientifico dei grandi narratori. Sono (siamo) matti?

O. Non credo che siate matti: più semplicemente, siete irreali, nel senso letterale. In fondo, ciò che distingue la scienza dalla letteratura è che la prima si interessa dell’unico mondo che c’è, e la seconda crea da sé i propri mondi immaginari. Ma vorrei far notare che, da questo punto di vista, la matematica sta più dalla parte della letteratura che da quella della scienza: in fondo, non le interessa altro che la mancanza di contraddizioni, e non il fatto che i suoi sogni siano realizzati dall’incubo reale.

B. Il grande matematico Gödel (il più grande di tutti, si dice) pare che a un certo punto sia effettivamente diventato matto. È per questo che si è avventurato nella sua “prova ontologica” dell’esistenza di Dio?

O. Gödel manifestò sintomi di squilibrio molto presto, subito dopo i suoi famosi teoremi degli anni 1930-31. Ma non bisogna essere matti per considerare seriamente la prova ontologica: basta voler cercare di fondare la religione sulla ragione, ed è ciò che hanno provato a fare in molti, da Anselmo a Cartesio a Leibniz. Ed è proprio perché trovò un errore nella versione di quest’ultimo della prova ontologica, che Godel provò a correggerlo: ma non pubblicò mai la sua dimostrazione, perché voleva evitare di dare l’impressione che ci credesse veramente. O, almeno, questo è ciò che dichiarò in seguito.

B. È probabilmente vero che “un bel silenzio non fu mai scritto”, ma non crede che le buone intenzioni di chi si è opposto alla lezione universitaria di Joseph Ratzinger si siano alla fine convertite in un rimbombante e colossale aiutone al medesimo?

O. Non si sono convertite: sono state convertite! È stato il Vaticano a cavalcare la lettera dei fisici, scritta molto tempo prima e formulata come una semplice protesta, e non come un appello al boicottaggio. Ma si sa che se c’è qualcuno in mala fede, sono proprio i preti. Anche se io sarei più propenso a dire che la fede è sempre “mala”, e che la buona fede non esiste, perché non sarebbe altro che la ragione…

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