“Sono cresciuta in una famiglia matriarcale. Mia nonna è rimasta vedova giovanissima, i miei si sono separati e io ho vissuto principalmente con mia madre. Mi interessava approfondire il rapporto che si sviluppa tra le donne quando rimangono da sole”. In occasione dell’uscita del romanzo “L’impero della polvere”, ilLibraio.it ha intervistato Francesca Manfredi, vincitrice del Premio Campiello Opera prima con la raccolta “Un buon posto dove stare”: “Ero abituata a scrivere racconti, con un romanzo invece è proprio come abitare in un altro spazio. Uno spazio in cui puoi entrare per davvero nella vita dei tuoi personaggi, sentire i loro pensieri, seguirli e vederli in ogni momento”

Dopo Un buon posto dove stare (La Nave di Teseo), la raccolta di racconti con cui si era aggiudicata il Premio Campiello Opera Prima, Francesca Manfredi torna in libreria, questa volta con un romanzo, L’impero della polvere (La Nave di Teseo).

Tra i due libri ci sono alcune connessioni che saltano immediatamente all’occhio: se nel suo esordio l’autrice racconta storie di personaggi in riferimento ai luoghi che abitano, anche nel romanzo ritroviamo questa relazione. Fin dalle prime pagine, prima ancora di incontrare le tre protagoniste, il lettore conosce “la casa cieca“: così chiamano in paese l’abitazione dove vive Valentina, insieme a sua madre e sua nonna.

È una casa grande, senza molte finestre, che viene vista quasi come un luogo leggendario e che fa paura ai ragazzini. E forse hanno ragione, perché la casa cieca – o la casa nera, oppure la casa maledetta, o ancora la casa dai mille piedi – sembra essere viva, una sorta di cassa di risonanza dove si concretizzano i timori, i desideri e i cambiamenti che attraversano le donne che risiedono lì.

Per parlare dei temi del libro e del suo rapporto con la scrittura, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice, reggiana classe ’88, che vive a Torino e insegna scrittura alla Scuola Holden, dove anche lei ha studiato.

l'impero della polvere

Quando è nata l’idea del suo primo romanzo? 
“Ho iniziato a pensare al romanzo subito dopo aver finito di scrivere Un buon posto dove stare. A dire il vero l’idea è nata in un momento molto casalingo”.

Quale?
“Stavo passando l’aspirapolvere, mentre ascoltavo nelle cuffie Hurt di Johnny Cash. Mi rimase in testa una frase, che poi è quella che si trova in esergo: ‘And you could have it all/ my empire of dirt/ I will let you down/ I will make you hurt’. Da quel ‘my empire of dirt’ è scaturito il mio “impero della polvere”.

Quindi è partito tutto dal titolo?
“Esatto. Chiaramente non è la traduzione letterale, ho rimaneggiato un po’ il significato, ma è stata proprio questa la scintilla”.

E poi?
“Poi ho immaginato una casa di campagna, una casa che era già presente nei racconti di Un buon posto dove stare. Così come anche le figure delle tre donne, che ho sempre pescato da un testo che però non avevo incluso nella raccolta. Le calamità naturali, invece, le dieci piaghe d’Egitto, sono arrivate in un secondo momento”.

La componente religiosa infatti è molto presente nel romanzo.
“È una scelta che parte dalla mia esperienza personale. Nel senso che, come immagino molte altre persone, ho ricevuto un’educazione cattolica. Inoltre, quello delle piaghe è un episodio della Bibbia che mi ha sempre impressionato, perché è un evento sovrannaturale che però, allo stesso tempo, ha anche qualcosa di estremamente naturale. È una sorta di degenerazione, di ribellione della natura”.

Cos’è cambiato rispetto alla scrittura di racconti? È stato più difficile, o più facile?
“È stato difficile all’inizio. Ma forse la prima frase, come diceva la Szymborska, è sempre la più difficile. Procedendo con la scrittura mi sono ambientata. Ero abituata a scrivere racconti, con un romanzo invece è proprio come abitare in un altro spazio. Uno spazio in cui puoi entrare per davvero nella vita dei tuoi personaggi, sentire i loro pensieri, seguirli e vederli in ogni momento”.

E questo ha avuto conseguenze anche sullo stile?
“Sicuramente. Mi sono presa più libertà. La scrittura è meno paratattica, ci sono frasi più lunghe, più subordinate. Il ritmo è più lento rispetto a quello dei racconti”. 

A proposito dei racconti, anche in questo libro i luoghi hanno un valore importante. E la casa cieca sembra vivere con la protagonista. Per esempio, quando a Valentina arriva il ciclo per la prima volta, sul soffitto appare una crepa che perde. Cosa rappresenta questo ambiente?
“La casa è il quarto protagonista. È una presenza determinante. C’è una connessione immediata tra l’ambiente e le donne che lo abitano. Non solo all’inizio, ma anche nel finale, quando la casa inizia a deteriorarsi, fino a diventare completamente inabitabile. È come se stesse chiedendo ai personaggi di andare via, di abbandonarla”.

Ci sono tre figure di donne nel libro, che incarnano le tre fasi della vita: ma anche tre tipi diversi di femminilità?
“In qualche modo sì. La nonna è una figura dura, appartiene a un altra epoca, ma non tanto per una questione anagrafica, quanto per la mentalità e per il modo di approcciarsi alla vita. La madre invece rappresenta il vitalismo. È una donna bellissima, inafferrabile, lunatica e volubile. La sua essenza non può non condizionare la figlia, Valentina, che invece è ancora un cucciolo sgraziato, e ha con la madre un rapporto di amore e odio. La vede come un modello da emulare e allo stesso tempo da evitare. Soprattutto nelle relazioni con gli uomini”.

Come mai ha scelto di tenere la figura maschile, quella del padre, a distanza?
“Questo era un altro tema presente nei racconti che ho voluto sviluppare. Anche questo deriva forse da un’esperienza personale. Sono cresciuta in una famiglia matriarcale. Mia nonna è rimasta vedova giovanissima, i miei si sono separati e io ho vissuto principalmente con mia madre. Ma al di là di questo, mi interessava approfondire il rapporto che si sviluppa tra le donne quando rimangono da sole”.

Ci sono state letture che in qualche modo l’hanno influenzata o a cui ha fatto riferimento durante la stesura?
“Quando scrivevo stavo leggendo L’arte della gioia di Goliarda Sapienza. Poi direi Ágota Kristóf e Faulkner. Anche Shirley Jackson e il suo Abbiamo sempre vissuto nel castello è stato un riferimento importante, proprio per l’elemento della casa che vive insieme agli altri personaggi”. 

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