L’italiano è più nobile del latino? Su ilLibraio.it un capitolo dal saggio “Ama l’italiano – Segreti e meraviglie della lingua più bella”, firmato da un’italianista appassionata, Annalisa Andreoni
Elegante, musicale, armoniosa, dolce, piacevole, seducente: per chi ci guarda da fuori, la nostra è la lingua più bella del mondo, tanto da farne la quarta più studiata tra le lingue straniere. Gli italiani, invece, tendono a darla per scontata, ignorando forse che le parole che ancor oggi utilizziamo hanno una storia antica e nobile. È un gran privilegio parlare d’amore, sognare e persino imprecare con le stesse parole di Dante e degli altri grandi della nostra letteratura. Dovremmo emozionarci sapendo di poter passare con facilità da un sonetto di Petrarca a una poesia di Alda Merini, da Ariosto al Fantozzi di Paolo Villaggio, dai poeti siciliani ai testi di Vasco Rossi. Le altre lingue europee non offrono questa opportunità, secondo Annalisa Andreoni, toscana, docente di letteratura italiana all’Università IULM di Milano, studiosa della modernità letteraria, condirettrice della Nuova Rivista di Letteratura Italiana, in libreria per Piemme con Ama l’italiano – Segreti e meraviglie della lingua più bella.
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Avere come strumento per esprimersi l’idioma che ha segnato nel mondo la musica, le arti, la scienza, il canto dovrebbe riempirci di ammirazione e orgoglio, e darci la misura delle nostre potenzialità. L’autrice è un’italianista appassionata, e ha scritto una dichiarazione d’amore in otto passeggiate tra i tesori della nostra lingua, da Boccaccio alla “supercazzola” di Amici miei, da Galileo a Benigni, per innamorarsi, o reinnamorarsi, della “lingua degli angeli”, nella definizione di Thomas Mann.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, la prima parte del terzo capitolo
È di uso burocratico la locuzione: di madre lingua. Eppure, che grandezza reale essa contiene. In verità il rapporto che noi abbiamo con la lingua è proprio quello: da madre a figlio, voglio dire, e reciprocamente. È la lingua nella quale siamo nati e cresciuti che modella in misura non certo esigua la nostra mente. La nostra sensibilità dipende anche dai toni, gradi, risvolti della lingua che suona intorno a noi e dentro di noi. La madre lingua a sua volta riceve e raccoglie l’effetto delle esperienze serie e perfino delle marachelle dei propri figli; si arricchisce di invenzioni, di trovate, di nuovi possibili costrutti, di significati transitori o improvvisi. Tiene conto di tutto, anche se molto sarà da buttare. È bonaria, parsimoniosa, non spreca niente la madre lingua; ma non è facilona, è anche gelosa di sé.
M. Luzi, Pensieri casuali sulla lingua
L’italiano è più nobile del latino
Nel capitolo precedente ho parlato di nobiltà dell’italiano. Non è un’idea mia: il primo a sostenere la nobiltà del volgare è stato Dante Alighieri. Nessuno se ne stupirà, immagino, perché tutti sappiamo che Dante fu il padre della lingua italiana. E Dante merita l’appellativo di padre della nostra lingua, non solo perché scrisse la Commedia, con cui accrebbe enormemente il corpo lessicale dell’italiano, usando parole che non erano mai state usate prima in poesia e inventandone molte di nuove, ma soprattutto perché nell’italiano ci ha creduto davvero. Ci ha creduto al punto da scrivere in volgare un trattato di filosofia che si intitola Convivio e, contemporaneamente, un trattato in latino per dimostrare ai professori dell’Università di Bologna la nobiltà della nostra lingua. All’inizio del De vulgari eloquentia (“L’eloquenza volgare”), scritto probabilmente fra il 1304 e il 1306, Dante spiega la differenza tra il volgare e il latino, che chiama grammatica:
Chiamiamo parlar volgare quello che i bambini acquisiscono con l’uso da chi si prende cura di loro quando cominciano ad articolare le parole; ovvero, come si può dire poi in breve, definiamo parlar volgare quello che assorbiamo, al di fuori di qualunque regola, imitando la nutrice. Abbiamo poi un altro linguaggio, di secondo grado, che i Romani hanno chiamato grammatica. Questo linguaggio di secondo grado lo possiedono i Greci e altri popoli, ma non tutti: pochi infatti arrivano a padroneggiarlo, dato che non riusciamo a farne nostre le regole e a divenirne esperti se non col tempo e attraverso uno studio assiduo. Alighieri, De vulgari eloquentia, pp. 1133-35 (traduzione di Mirko Tavoni).
Dante sta descrivendo la situazione di diglossia che vigeva in epoca medievale: un doppio regime linguistico in cui convivono una lingua di prestigio – il latino – usata nella comunicazione scritta e una lingua non di prestigio – il volgare – usata nella comunicazione orale.
(Cfr. Giovanardi, C., Il bilinguismo italiano-latino del Medioevo e del Rinascimento, in Serianni-Trifone 1994, vol. 2, Scritto e parlato, pp. 435-66).
E afferma una semplice verità, cioè che appropriarsi del latino è possibile solo attraverso uno studio lungo e costante. Il volgare è più nobile del latino, afferma, perché è un linguaggio che ci è naturale e che impariamo sin da bambini. È, insomma, la nostra lingua madre:
Di questi due, il più nobile è quello volgare: sia perché è stato usato dal genere umano per primo; sia perché ne fruisce il mondo intero, per quanto sia diviso in diverse pronunce e in diverse parole; sia perché ci è naturale, mentre l’altro è, piuttosto, artificiale.
È straordinario che un intellettuale della sua epoca arrivasse a considerare elemento di nobiltà il fatto che una lingua fosse lingua madre, di contro all’opinione comune che riteneva il latino più nobile perché era la lingua dei grandi autori antichi. Il fondamento di questa idea era che il volgare, in quanto linguaggio naturale, fosse più prossimo a Dio di un linguaggio artificiale; ciò non toglie che la sua fiducia nel volgare, ferma e duratura, abbia costituito una svolta decisiva per il prestigio e il futuro della nostra lingua.
Dante credeva, in linea con la sua età, che il latino e il greco fossero lingue artificiali, immutabili nel tempo, inventate anticamente dai dotti per superare la mutevolezza delle lingue naturali e per garantire la leggibilità delle opere scritte. La base linguistica di queste invenzioni sarebbero stati i volgari d’oil, d’oc e di sì, ma l’italiano avrebbe avuto «un certo primato», visto che l’avverbio affermativo sic derivava dal nostro sì. Il rapporto tra italiano e latino, insomma, era rovesciato: vi era l’italiano alla base del latino, e non viceversa: il trovatore Sordello da Goito, infatti, nel Purgatorio dice che grazie a Virgilio «mostrò ciò che potea la lingua nostra» (Purgatorio, canto VII, v. 17).
Dante intuisce l’affinità dell’italiano con il francese e il provenzale, ma ritiene che l’italiano primeggi per due motivi, uno linguistico e uno letterario: perché è più vicino al latino e perché i poeti che l’hanno usato avevano «maggior dolcezza e acume»:
La terza [lingua], quella degli italiani, afferma il suo primato in forza di due privilegi: il primo, che coloro che hanno poetato in volgare con più dolcezza e acume sono suoi servitori e domestici, come Cino da Pistoia e il suo amico [Dante stesso]; il secondo, che mostra di appoggiarsi di più alla grammatica che è comune, il che, a chi esamina secondo ragione, appare un argomento di grandissimo peso. Alighieri, De vulgari eloquentia, p. 1137.
Dante cerca poi di individuare il volgare migliore tra quelli parlati nelle varie città d’Italia, delineando nel De vulgari eloquentia quasi una carta dei dialetti italiani, ma non ne trova nessuno che lo soddisfi. Questo “volgare illustre” che cerca è potenzialmente presente in ogni luogo, ma non si incarna veramente in nessun volgare locale, proprio come la pantera, ci dice, che secondo i bestiari medievali spargeva in ogni luogo il proprio soave profumo, pur rimanendo introvabile. La conclusione è che esso coincide con la lingua dei poeti più grandi: questa lingua scritta, al momento non parlata da nessuno, sarà un giorno la lingua degli italiani.
Possiamo dire che la storia ha dato ragione a Dante, anche se fu tutto molto più difficile di come lui l’aveva immaginato. Ci si potrebbe aspettare, infatti, che dopo la grande esperienza dantesca la storia dell’italiano fosse ormai in discesa e che non potesse essere costellata se non da fortuna e successi. Invece non fu così: abbiamo rischiato grosso! Non nel senso che l’italiano avrebbe potuto scomparire, perché le lingue sono realtà che avanzano e mutano nel tempo in modi e misura che nessuno può fermare, e nemmeno, a ben vedere, governare; ma nel senso che l’italiano avrebbe potuto non conoscere lo sviluppo letterario che ha effettivamente conosciuto e rimanere confinato ad ambiti più umili, e dunque evolversi in maniera molto differente rispetto a come sono poi andate le cose.
2017 – EDIZIONI PIEMME Spa, Milano
(continua in libreria…)