Su ilLibraio.it la recensione di “Joker”, il film diretto da Todd Phillips che ha vinto il Leone d’oro alla 76esima Mostra del cinema di Venezia

Co-nato per ridere. Nella maschera istrionica di Joaquin Phoenix c’è tutto lo sforzo, l’eccesso e il talento debordante di una (sovra)interpretazione: coazione a ripetere del dolore e trucco che sbava nel sangue, dente che duole e risata che seppellisce. Nel parossismo lancinante della grimasse di Joker sono racchiusi pregi e difetti di un film gioco forza mimetico del suo protagonista, dunque sopra le righe e sotto una maschera.

Eppure c’è, dietro (e attraverso) la performance del protagonista per oltre due ore sotto l’occhio di bue, in un film d’attore più che d’autore (Todd Phillips espia la sua provenienza dalla commedia), un’anima nuda e cruda, corpo dinoccolato e contorto che tra-balla, homo ridens in costume di forza, versione ferina dell’essenza inquietante del clown, spirito represso e ferito, anima(le) circense da palcoscenico. In gabbia.

Il romanzo di deformazione di Arthur Fleck (prequel originario della saga di Batman, dal quale l’uomo pipistrello è programmaticamente escluso, in favore della genesi del villain) è infatti una danza macabra, un one man show grottesco e claustrofobico, musical e horror insieme, stand-up tragedy, fumetto sulfureo e parabola di dannazione.

In questo racconto affondativo di Gotham City i personaggi scorsesiani di re per una notte e di taxi driver, antonomasie fino al cliché dell’alienazione metropolitana, s’incontrano e implodono in un ritratto espressionista dell’America oggi, come incastrata in un perpetuo bilico fra fine anni Settanta e anni Ottanta, rabbia e privilegio, schiavitù e rivolta.

Con un curioso ribaltamento di ruoli, che equivale a un passaggio attoriale di testimone: nella parte che fu di Jerry Lewis eccoci finito un Robert De Niro gigione alla Letterman (meglio: alla Carlson), mentre solo nella stanza, allo specchio, rivolto a un pubblico di fantasmi (e alla mamma), con la pistola alla tempia, c’è il volto dipinto di Phoenix, con l’espressione matta dell’ultima carta da giocare in un’esistenza perduta (Robert Pupkin e Travis Bickle resuscitano in un novello Norman Bates).

La metropoli è una città perduta, una waste land di spazzatura e sopraffazione, contagio e criminalità, dove la scala sociale (alla lettera, una scalinata ripida e infinita) è spietata come un muro. La violenza è l’esito di una frustrazione diffusa e pervasiva che nutre il risentimento. Il protagonista è una macchia/puntino, come suggerisce il cognome stesso, in cerca di espressione/esistenza, vessato dai bulli di ogni ceto, deriso per principio, e condannato a un’allegria imposta come forma di buona maniera, in attesa di un action painting rosso sangue che spezzi ogni codice e ogni catena.

Un’educazione alla ricerca della felicità recitata, orfano e adottivo come ogni eroe che si rispetti, Arthur è costretto a indossare una maschera ilare pur di non vedere la realtà di violenza e sopraffazione che ne ha informato la crescita. In questo senso è l’uomo qualunque in cui non è difficile riconoscere quella parte di noi che reagisce pavlovianamente, andando dietro per inerzia alle risatine registrate e anestetizzanti del modello televisivo. E le suggestioni politiche, dalle maschere di V per Vendetta in versione clownesca alle derive del populismo odierno, non mancano, in un film che racconta la costituzione e devastazione della nostra città.

Ma se la metafora sociale appare schematica e un po’ troppo semplicistica, è il personaggio del Joker che emerge dal grigiore in una sua profondità variopinta: pietoso e spietato, vittima e carnefice, spoglio e onnipotente, è insieme tenero e repellente. Il sogno trasformista di un attore, un esercizio di stile che oscilla fra la paralisi/smorfia della risata e l’eleganza musicale dei passi di danza (con un’eco di Singing in the rain filtrata da Arancia meccanica). Ecco che il noir del mondo, il suo darsi come universo corrotto e putrefatto, insalvabile, serve a fare emergere questa figura colorata e mortifera, viva e autodistruttiva, narcisistica e solipistica, che recita un anelito emancipatorio paradossale, e che alberga in ciascuno di noi, in quel potenziale distruttivo in cui riconosciamo pure motivazioni e fame comprensibili. Quel sentimento d’identificazione con l’aggressore può trasformare in eroe il malvagio, come il ghigno cannibale e l’intelligenza seduttiva di un Hannibal Lecter. In assenza (o in attesa) di buoni alternativi, ci tocca un cattivo fenomenale.

L’AUTORE: alla pagina dell’autore tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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