“Come reagisce la mente nel momento in cui può sperimentare la libertà e l’autonomia?”. È la domanda alla base del romanzo “Un’altra occupazione” di Joshua Cohen, che, intervistato da ilLibraio.it, ha raccontato il “risveglio politico” che ha fatto vivere ai suoi protagonisti. Lo scrittore, tra le altre cose, ha riflettuto sull’importanza dell’esperienza come traduttore dall’ebraico e ha dichiarato: “Per scrivere bisogna essere un camaleonte: cambiare la propria pelle, nascondersi e sapere dove farlo”

Il 4 luglio David King sta partecipando a un evento promosso da un politico repubblicano in un’elegante casa sul mare. Pochi potrebbero sentirsi più fuori posto di lui, il Signore dei traslochi di New York: sovrappeso, fumatore incallito con un certo interesse per le droghe, trasandato nel vestire e dai modi tutt’altro che posati. David è solo il primo dei personaggi che formano l’universo di Un’altra occupazione di Joshua Cohen (Codice, traduzione di Claudia Durastanti).

David, infatti, sta per accogliere a New York il figlio della cugina, Yoav, che ha appena finito il servizio militare in Israele e che trascorrerà un anno sabbatico in America lavorando per la King traslochi. Durante lo svolgersi del romanzo scopriremo il suo passato nell’esercito e l’amicizia con Uri, che ben presto lo raggiungerà negli Usa. Ma anche la vita dissoluta dell’unica figlia di David, il difficile divorzio da Bonnie che ha rischiato di privarlo di gran parte del suo patrimonio e il lavoro quotidiano della azienda di traslochi, che spesso si occupa anche di sfratti.

Per parlare del romanzo e dei suoi protagonisti, ilLibraio.it ha intervistato Joshua Cohen.

Com’è nato questo libro?
“Mi interessava raccontare la storia di due ragazzi, di come vivono le situazioni in cui si trovano e di come iniziano a confrontare i due mondi: Israele e l’America. Volevo mostrare al lettore come i miei protagonisti iniziano a pensare che ci siano connessioni tra le due realtà che conoscono; inoltre, iniziano a riflettere su alcuni aspetti della società, e per loro comincia una sorta di ‘risveglio’ politico'”.

E l’aspetto degli sfratti, che diventano un nuovo campo di battaglia per Yoav e Uri?
“Nel 2008 ho iniziato a vedere le conseguenze della crisi economica anche nella mia città, New York: persone che perdevano la loro casa, la polizia che li sfrattava. Ho riflettuto sulla militarizzazione di quegli atti. E così ho deciso di portare questo aspetto nel romanzo. In realtà solo più tardi ho pensato di inserire anche Israele, uno stato che conosco e a cui sono legato”.

Nel romanzo si affronta anche il tema dell’appartenenza di classe. Crede che negli ultimi anni si stia dibattendo sufficientemente di questa tematica?
“Non se ne parla molto perché, almeno nella parte del paese in cui vivo, non c’è una vera e propria definizione di quella che è l’appartenenza di classe. Nel passato c’erano demarcazioni più chiare, ora c’è maggiore fluidità e non sempre si può dire con certezza quali siano le caratteristiche che definiscono l’appartenenza a una classe piuttosto che a un’altra. Piuttosto si discute di genere e di razza. E forse più che di classe si parla della separazione tra soldi e la sensazione di meritarli. Nel libro molti dei personaggi vivono un continuo conflitto perché credono di meritare più denaro di quanto ne abbiano”.

Yoav e Uri sono ebrei cresciuti in Israele. Quanto conta l’aspetto religioso nella creazione della loro identità?
“I miei protagonisti sono cresciuti in una teocrazia e hanno fatto il servizio militare, che è obbligatorio in Israele. Alla fine di esso prendono un anno sabbatico e per la prima volta lasciano il loro paese. Bisogna ricordare che Israele è uno stato molto isolato e da cui molti non se ne vanno mai. A 21 anni hanno sempre fatto quello che gli è stato detto di fare, dalla famiglia, dalla religione e poi dall’esercito”.

E infatti quando arrivano in America hanno un modo diverso di rispondere alla libertà…
“Volevo raccontare la mente di due giovani che, per la prima volta, sperimentano la libertà e l’autonomia di decidere per se stessi. Avevo una domanda in testa: come reagisce la mente nel momento in cui può sperimentare la libertà e l’autonomia? Questa è una questione esistenziale, per me”.

Una delle analogie che si leggono nel romanzo è anche la contrapposizione di ebraismo e islam. Da un lato la guerra in Israele, dall’altro lo sfratto di un afroamericano musulmano…
“La questione è più complessa, come dicevo prima le analogie le creano i due personaggi vivendo alcune situazioni. Quello che mi interessava era creare dei protagonisti che non fossero il tipico personaggio ebreo da romanzo. Yoav e Uri sono ebrei di terra araba, quelli che compongono la maggioranza degli abitanti di Israele e provengono da famiglie che sono state cacciate dal Nord Africa. Hanno una particolare connessione con la cultura araba che gli ebrei europei non hanno mai avuto”.

Oltre che scrittore, lei è anche traduttore dall’ebraico e dal tedesco. Questa attività come influenza la sua scrittura?
“Scrivere è tradurre. Rendere un’idea in parole è tradurre. In realtà chiunque traduce nel momento in cui racconta un’esperienza con le parole. ogni volta che ci esprimiamo traduciamo quello che esiste nel nostro universo interiore in un qualcosa che viene trasmesso all’esterno. Quando cerchiamo di farci comprendere traduciamo. Di sicuro, la mia esperienza di traduzione dall’ebraico mi è servita per scrivere i dialoghi di Yoav e Uri che parlano inglese come seconda lingua e, quindi, tendono ad adattarlo alla struttura della loro lingua”.

Ci sono opere o autori che l’hanno influenzata come autore?
“Per ogni libro cambiano le influenze: per questo romanzo ho letto molta letteratura ebraica e mi sono fatto influenzare da tanta poesia che ho tradotto. Per scrivere bisogna essere un camaleonte: cambiare la propria pelle, nascondersi e sapere dove farlo. Parte di questa capacità dipende proprio dal leggere scrittori che associo al tema del libro che sto scrivendo. In questo modo tento di assorbire alcuni aspetti della lingua: solo così si acquisisce anche una determinata forma mentis. Scrivere di un personaggio per me vuol dire anche diventare tu stesso quel personaggio e vivere nel suo ambiente. Per questo motivo, in realtà, la più grande fonte di ispirazione per il romanzo è stata passare del tempo in Israele e Palestina”.

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