Nonostante abbia vinto il Premio Pulitzer e il National Book Award, e sia stata candidata per tre volte al Nobel per la letteratura, oggi è poco ricordata: un approfondimento dedicato all’opera della scrittrice texana Katherine Anne Porter (1890–1980), in occasione della pubblicazione de “Lo specchio incrinato”

Esistono autori che, nonostante il ruolo fondamentale nella produzione letteraria del loro tempo e le molteplici pubblicazioni, finiscono negli anni con il perdersi nella vastità dell’offerta editoriale. Un processo fisiologico inevitabile, legato talvolta all’anacronismo dei temi trattati e alla necessità di far posto ad altre voci. Accade però, a un certo punto, che i loro nomi tornino a risaltare sulle copertine: il merito è senz’altro degli editori che con lungimiranza li ripropongono, offrendo ai lettori la possibilità di assaporare il gusto di riscoperte che diventano in breve tempo imprescindibili.

È il caso di Katherine Anne Porter, scrittrice texana vincitrice nel 1966 del Premio Pulitzer e del National Book Award con The Collected Stories, nonché candidata per tre volte al Nobel per la letteratura. Qualcuno forse la ricorderà per l’unico romanzo La nave dei folli, adattato per il cinema da Stanley Kramer nel 1965; tuttavia è proprio grazie ai racconti, risalenti all’incirca agli anni Trenta, che Porter può essere annoverata tra le voci americane più importanti della sua epoca.

Katherine Anne Porter
Con Lo specchio incrinato Bompiani ci consente uno sguardo complessivo sull’opera nella sua interezza: la raccolta riunisce racconti pubblicati in tre momenti separati, con qualche revisione e aggiunta – come dichiara la stessa autrice nell’introduzione all’edizione completa (Va’, librino…): “Ogni storia che io abbia mai portato a termine e pubblicato si trova qui”. Un lascito notevole, dunque, che richiede qualcosa in cambio: la legittima richiesta al lettore di non sottovalutare le sue creazioni con le etichette riduttive di “romanzetti” o “novelle” (“parola fiacca, smidollata e artificiosa”). Le narrazioni possono essere ascritte a quattro tipologie precise: racconti brevi, racconti lunghi, romanzi brevi e romanzi.

L’albero di Giuda in fiore, Bianco cavallo, bianco cavaliere, La torre pendente: un totale di venti racconti che mettono in scena un campionario umano diversificato in cui l’irrequietezza esistenziale e il conflitto con una società rivolta al futuro, ma ancora incastrata in strutture fisse fanno da collante.

In un certo senso ogni storia ripropone un percorso di formazione nell’accezione più classica del termine, in cui l’evoluzione dei personaggi viene snocciolata senza filtri e arzigogoli di fronte al lettore. Un esempio ne è piccolo ma brusco trauma sentimentale de La vergine Violeta: “Tutto ciò che Violeta ricordava nella sua vita sembrava essersi dissolto in una confusione e in una tristezza che non trovavano spiegazione perché tutto era cambiato e incerto”.

I personaggi sono quasi sempre prigionieri di una vita che li ha disillusi, proiettandoli troppo bruscamente in una realtà frustrante e logorata da convivenze forzate e matrimoni all’insegna dell’incomunicabilità, che tuttavia, quasi come per paradosso, diventano l’unico rifugio possibile da un mondo che da soli non si è più in grado di affrontare. Lo insegna Rosaleen, protagonista del racconto che dà il titolo al volume, la cui fuga a Boston per trovare la sorella malata si conclude con un incontro grottesco e il conseguente ritorno dal marito Dennis, in quella casa con uno specchio deformante che ancora una volta ha dimenticato di sostituire: “Si stava chiedendo che ne era stato della sua vita; ogni giorno aveva pensato che stesse per succedere qualcosa di meraviglioso, e invece era tutto uno sbandare da una terribile delusione all’altra. […] al di là di tutto, come un campo verde baciato dal sole del mattino, c’erano la gioventù e l’Irlanda, quasi fossero una cosa che aveva sognato, o inventato in un racconto dei suoi. Ah, che cosa c’era da ricordare, o da sperare, ormai?”. Alla fine di questo tunnel raramente si intravede una luce, e la desolazione delle relazioni umane talvolta lascia spazio a una confortante e malinconica tenerezza; ecco perché alla domanda “Perché hai sposato una come me?” Dennis risponde: “Sapevo benissimo che non avrei potuto fare di meglio”.

A fare da sfondo a queste piccole educazioni sentimentali è molto spesso il cattolicesimo, con il carico di moralismi e privazioni che si porta dietro: è all’ombra del convento delle Figlie di Gesù che Maria e Miranda, in Fato comune, imparano a tracciare il confine tra la vita, “reale e seria”, la poesia e le storie, “dove le cose succedevano come in nessun altro posto”. Il desiderio di evasione si coniuga sempre a un senso di sradicamento, di non appartenenza: “Dove sono le mie persone e il mio tempo?”.

La prigionia del convento, quella della famiglia, e infine quella del matrimonio: ecco le tappe inesorabili della vita di una donna americana all’inizio del secolo. Ed è quasi a se stessa che Porter sembra parlare quando, a chiusura del racconto, fa dire a Miranda: “Non voglio promesse, non avrò false speranze, non mi guarderò con occhio romantico. […] Io almeno posso sapere la verità su quello che succede a me, si assicurò in silenzio, facendosi una promessa, nella sua fiducia, nella sua ignoranza”.

Ogni racconto della Porter è una promessa infranta, anche quando niente sembra poterla scalfire: è il caso del signor Thompson, umile protagonista de Il vino di mezzogiorno, sulla cui placida vita di provincia si abbatte una sciagura che denuda la fragilità dei rapporti familiari e il confine tra il tempo passato, idealizzato e trasfigurato quasi in sogno, e il presente in cui l’ossessione della verità – ufficiale, pubblica, personale, intima – scandisce il tempo che scorre.

L’immagine della torre pendente, che dà il titolo al racconto conclusivo, è esemplificativa di un’irrequietezza che non è solo quella della donna alla ricerca della propria emancipazione in una società non ancora pronta ad accoglierla, ma traduce una più profonda inquietudine esistenziale, un’«infernale desolazione dello spirito» – nella coscienza del protagonista Charles – alla quale nessun pianto o sfogo può porre rimedio.

Per dipingere questo panorama umano tormentato e disgregato Porter si affida a una scrittura limpida e descrittiva, dettagliata nel contesto come nei sentimenti più semplici che animano i suoi personaggi: l’introspezione psicologia classica si accompagna in alcuni casi a toni più leggeri e talvolta ironici, che aiutano a comprendere come dietro queste pagine si celi una scrittrice consapevole del proprio talento e – protofemministicamente – dei diritti che, in quanto tale, le spettano.

“Separarsi è un po’ morire […] ma quello che do a questi racconti è un addio lieto perché ne rinnova la vita e ne prolunga l’esistenza sul pianeta, ed è questa la massima aspirazione di ogni artista: essere letto e ricordato”.

 

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