“La donna elettrica”, il nuovo film del regista islandese Benedikt Erlingsson (già celebre per il precedente “Storie di cavalli e di uomini”) è una commedia surreale e straniante che affronta la questione ambientale: la protagonista, Halla, si presenta come una vera e propria supereroina green, armata di arco e frecce, che si arrampica sui monti islandesi per sabotare le multinazionali che stanno devastando la terra. Tutto, però, resta in superficie… un’occasione mancata?

Si parlerà de La donna elettrica?

Sebbene sia stato accolto con entusiasmo all’ultimo Festival di Cannes, il secondo film del regista islandese Benedikt Erlingsson è la classica storia che rischia di passare inosservata, soprattutto in Italia. Il motivo principale è che affronta questioni ambientali, temi che – purtroppo – generalmente non godono di grande popolarità.

La protagonista, Halla, si presenta come una vera e propria supereroina green: armata di arco e frecce, si arrampica sui monti islandesi per sabotare le multinazionali che stanno devastando la terra. Poi scappa, si nasconde, stringe alleanze con i contadini del posto e torna alla sua vita normale. Come tutti i supereroi, infatti, Halla ha una doppia identità, e quando non è impegnata a salvare il pianeta, è l’adorabile direttrice di un coro.

Ma il suo equilibrio perfetto si rompe quando le viene comunicato che una sua vecchia richiesta di adozione è stata finalmente accolta: in Ucraina c’è una bambina che ha bisogno di una mamma. È da tempo che Halla aspetta questo momento e adesso è costretta ad affrontare il classico dramma dell’eroe: scegliere tra l’interesse personale e la missione universale. Se vuole diventare una madre deve necessariamente smettere di essere “una terrorista”, come è considerata ormai da tutta l’Islanda.

Ed eccoci arrivati al punto più interessante del film: “la donna elettrica” (così si firma Halla nelle sue comunicazioni ai civili) viene vista come un essere pericoloso, un criminale da stanare e sbattere in galera. Nonostante agisca in nome di un ideale giusto, infatti, nessuno crede che lei stia facendo davvero del bene, a nessuno interessa che stia salvando il pianeta. Su questo il film non lascia dubbi, dato che i personaggi vengono presentati come figure abbastanza stereotipate, schierate nel classico schema buoni vs cattivi: per cui da una parte troviamo la protagonista pura e coraggiosa, dall’altra invece il governo islandese, complottista e spietato. Non c’è una complessità tale da renderli sfaccettati e poliedrici, ma questa scelta è sicuramente riconducibile alla cifra stilistica che il regista ha deciso di adottare. Il film è una sorta di commedia dal tono surreale e straniante (già sperimentato da Erlingsson nel suo primo film, Storie di cavalli e di uomini) che cerca di trattare la questione ambientale con una certa leggerezza, probabilmente per non rischiare di suonare troppo paternalistica e pedante.

È nella scelta del tono che La donna elettrica mostra la sua originalità, perché riesce a rappresentare una natura piegata dall’inquinamento senza dipingere scenari tragici e apocalittici, a differenza di gran parte dei film appartenenti all’eco fiction e alla climate fiction (il genere nel quale si ascrivono le narrazioni che affrontano il cambiamento climatico e, in generale, i problemi ambientali). Eppure, allo stesso tempo, proprio questa scelta di tono potrebbe dimostrarsi inefficace: alla fine il film rimane sempre in superficie, non esplorando del tutto la questione ambientale e rischiando per tanto di rivelarsi un’occasione mancata.

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