“Credo in una poetica degli scarti. Nella testimonianza, e seconda vita, del rottame e del sedimento…”. Elvira Seminara, scrittrice e pop artist, su ilLibraio.it parla di scrittura, scrittori e artisti (da Perec a Don De Lillo, da Chatwin alle opere di Boltanski): “C’è sempre meno differenza fra noi e loro, gli oggetti (…). Noi stessi, mentre il mondo oggettuale si umanizza, brillantemente ci cosifichiamo…”

di Elvira Seminara*

C’è di mezzo la colla, tra le esperienze più insolite degli ultimi anni. Un adesivo potente – quello che usano i calzolai , per capirci – che però non riusciva a incollare un’etichetta di raso su una busta di cellophane. Pressavo spalmavo e soffiavo, poi aumentavo la dose, stendevo col dito: niente. Dopo un’ora le due parti – le più sottili e leggere al mondo, raso e cellophane! – erano ancora (fastidiosamente, spocchiosamente) autonome.
Troppo facile, per uno scrittore, cavarne metafore sulle relazioni. Cosa ci lega, fra due persone, se non basta l’affinità? Cosa impedisce a due parti simili di allearsi, in assenza di tensioni o resistenze specifiche? Sostanza molecolare, attrazione o repulsione tra le parti – è un attimo, e sei alla chimica dell’amore.
Ok, molto stimolante. Ma lo confesso, a me incuriosiva di più l’estrema riluttanza di una colla che si dichiara in grado, sulla scatola, di unire in modo permanente superfici di legno, specchi e molto altro, e qui incapace di assemblare pochi e vaghissimi grammi.

Chiesi dunque a un amico esperto, e la lunga conversazione sulle varie tipologie di colle (utilissima anche ai miei manufatti di riciclo), sui legami tra molecole e particelle, e compatibilità fra sostanze o meno, aggregazioni – forse perché c’era davanti un bell’insieme di mare, autunno e tramonto – si è rivelata nel tempo ricca di spunti e di sorprese. Una specie, cioè, di Gnoseologia del mastice.

Prima acquisizione: non esiste, è un’utopia, l’Attaccatutto. Secondo: è solo un medium, una sostanza che si frappone fra due. Dunque deve sintonizzarsi con entrambe le parti. Terzo: la forza e la pressione non servono, non puoi imporre alcuna alleanza se non c’è sintonia tra le basi. In pratica, la diplomazia fra stati.

Ma non è la metafora, dicevo, a sedurmi. In verità amo le cose. Non tutte, certo, e non Le Cose feticcio di Perec, vestiti e oggetti capaci di indemoniarti e perderti nel flusso ottuso della moda, ma cose-cose, le realtà pulsanti di cui parla Bodei in Vita delle cose. Cose, appunto. E non oggetti (lui distingue fra i due) ovvero prodotti di mercato, merce.

È passato del tempo, e il Rumore bianco di Don De Lillo non è più così ostile e misterioso. A me pare che il nostro rapporto con gli oggetti, dopo il superamento della demonizzazione post-marxista della merce, il consumismo degli anni Ottanta e il minimalismo chic del Duemila, sia diventato negli ultimi decenni più complesso e variegato.

Intanto, c’è sempre meno differenza fra noi e loro, gli oggetti. L’industria giapponese sforna umanoidi sempre più utili e affidabili (robot-badanti o tate-robot più sensibili dei parenti o comunque meno impegnativi di estranei a pagamento), gli elettrodomestici sono sempre più efficienti e autonomi, e i nostri computer hanno più memoria, capacità cognitiva e combinatoria di noi. Noi stessi, mentre il mondo oggettuale si umanizza, brillantemente ci cosifichiamo. Siamo iperconnessi tecnologicamente, utilizziamo sempre più microchip, protesi, terminali e monitor, più o meno interni al nostro corpo, per scopi sanitari, riproduttivi, scientifici, comunicativi, ludici o professionali.

Intanto, però, guardatevi intorno. Lo scaffale sul camino, il cassetto aperto del comò, il libro a terra vicino al letto. Ci guardano, fissano, le cose di casa. Quelle che hanno subìto una transustanziazione, una specie di sacralizzazione creata dalla consuetudine. Rilke attribuiva a esse la “larizzazione” delle stanze.  Perché conservano e restituiscono memoria e tracce, non solo dell’uso ma del tempo. È quella relazione raccomandata in fondo da Heidegger quando parla di Cura delle cose. E da Chatwin, quando in Utz tocca le amate ceramiche, per non farle ammalare di solitudine.

Fra gli artisti che amo di più, non a caso, c’è Joseph Cornell, il “cacciatore di immagini” come lo chiama Simic nel suo canzoniere. Perché Cornell ama le cose vecchie, rotte, trovate per strada o dai rigattieri, per la loro intima natura di cose vissute e abbandonate, dunque passibili di nuova esistenza. Le cose-giacimento, come le chiamo io, capaci di diventare, nel riciclo creativo, mappe narrative. Le cose banali che diventano reliquie sotto lo sguardo e le mani dell’artista che le riconverte in altra dimensione, non più funzionale o strumentale ma puramente estetica. I giapponesi hanno individuato questa speciale variante di bellezza, la malinconia delle cose, e la chiamano Mono no aware.

Cornell costruisce così le sue piccole scatole-teatro e io provo una vertigine quando mi inabisso dentro i suoi scenari, insieme domestici e inquietanti. Stranianti e familiari. Ci vuole molta compassione per le cose, per la loro vita preesistente, per quello sforzo di restare cose, se vuoi penetrare il segreto di Cornell (e di certe nostre relazioni col mondo).

Ma occorre anche uno sguardo più amorevole, e liberato, per le mani che hanno costruito le cose, le hanno disegnate e poi assemblate, cucite o montate, levigate e verniciate, controllate, e poi piegate confezionate imballate spedite, e consegnate, esposte, vendute, messe in circolo nel mondo, comprate usate indossate e abbandonate. Rivissute. Le opere di Boltanski, i cumuli di abiti vecchi in quella sua installazione, con la gru che li ghermiva e accatastava, da un punto all’altro, raccontano questa tristezza faticosa delle cose. Le ferite e gli strappi del tessuto. La resistenza. Nonostante noi, e il tempo ridotto di vitalità assegnato da un’industria che impone la rapida obsolescenza.

Io credo nell’opera delle mani, nel cosiddetto lavoro e ingegno manuale guardati per secoli con rifiuto o sufficienza. Come ha detto Levi Strauss, “l’avvenire dell’uomo è nelle sue mani. Con le mani facciamo le cose più belle, seminiamo i campi, costruiamo case e sculture, facciamo una carezza”.

Io mi sento una scrittrice artigiana, un’ebanista delle parole. Mi piace estrarle dal mucchio e lavorarle, ripulirle dalle croste dell’uso e dell’abuso, come fossero detriti di un’altra lingua, e rinfrescarle, levigarle – e poi incastrarle secondo una musica che gli dia luce. Smontare il linguaggio e rimontarlo con un senso diverso, perché a risignificare le parole basta spostarle da un mondo semantico all’altro, il che le rende più felici. Specialmente quelle più logore o, peggio, abbandonate, perché fuori uso o fuori moda, che pronunciamo con voce falsa e vergognosa, quasi tra virgolette. Mi piace la riparazione. (E non a caso il mastice, dunque).

È questo che faccio, come “cantascorie”. Se scrivo o creo artefatti con resti e cocci, è sempre la stessa sintassi, parole e cose. Fatta di recupero, riciclo creativo, ri-memorizzazione, custodia del minimo. Tra i refusi urbani, rifiuti ed eccedenze, pieghe e crepe del quotidiano, imperfezioni, dettagli. Manomissioni contro lo sperpero – lo spreco in cui viviamo di risorse e di tempo, di parole e d’acqua, spreco di ossigeno, di bellezza, di felicità.

Eccomi – io credo in una poetica degli scarti. Nella testimonianza, e seconda vita, del rottame e del sedimento. Più che un’educazione sentimentale (moti del cuore ne esponiamo già troppi, sui social ) vorrei un’educazione sedimentale di massa. Con palingenesi della colla, naturalmente.

Atlante degli abiti smessi

L’AUTRICE* – Elvira Seminara, giornalista, scrittrice e pop artist, ha pubblicato per Mondadori L’indecenza (2008) e per nottetempo Scusate la polvere (2011) e La penultima fine del mondo (2013). I primi due romanzi sono stati messi in scena nel 2014 e nel 2015 dal Teatro Stabile di Catania. Suoi testi sono tradotti in diversi paesi. Vive ad Aci Castello. Per Einaudi ha pubblicato Atlante degli abiti smessi.

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