Un capitolo da “Il sacrificio di Éva Izsàk”

Quella della giovane ebrea ungherese Éva Izsák, fatta suicidare nell’estate del 1944 a diciannove anni e mezzo, è una storia vera. Una storia atroce, perché a decretare la sua morte è stato chi l’avrebbe dovuta proteggere: Imre Lipstiz, ventiduenne, che qualche anno dopo cambierà nome e diventerà Imre Lakatos, il famoso filosofo erede di Popper. Éva si fidava di lui e degli altri resistenti perché era come loro. Erano tutti giovani, molti di famiglia ebrea, in fuga dai nazisti, comunisti, si chiamavano “compagni” e si preparavano a costruire la nuova Ungheria.  Fu il filosofo Imre Toth, nel 2006 a Parigi, a raccontare questa storia a Januaria Piromallo e a donarle il manoscritto Il monumento di parole per Éva perché lei la raccontasse a sua volta. Il risultato è “Il sacrificio di Éva Izsàk”, in libreria per Chiarelettere. Januaria ha raccolto fonti, cercato negli archivi. Insieme al manoscritto (da cui sono tratti i corsivi di del libro), sulla sua scrivania si sono impilati testi storici, saggi, articoli e foto dell’epoca. Ma le testimonianze ufficiali, se sono sufficienti a dare una versione dei fatti, non bastano a comprenderli. Ed è per comprendere che Januaria ha trasformato questa storia in un romanzo…
 
Per gentile concessione di Chiarelettere, pubblichiamo un estratto dal secondo capitolo…

Non so dire quante volte ho immaginato la morte di Eva. L’ho vista correre per provare a fuggire, l’ho vista piangere, disperarsi, l’ho vista implorare pieta. Ora che la conosce meglio (perché è cosi: anche se e solo la sua storia quello che mi resta, io Eva la conosco) so che e stata brava davvero, come ha detto Nyuszi a Imre Lipsitz quando e tornato a Nagyvarad. Il vero nome di Nyuszi era Levente Soos. Lo chiamavano coniglio perche era un vigliacco, per questo il capo ha mandato lui: per metterlo alla prova. Per sapere se l’avrebbe lasciata andare, e quando dopo cinque giorni non era ancora tornato era sicuro che non l’avrebbe vistomai più. Invece e arrivato, e gli ha portato una copia del giornale di qualche giorno prima. Un articolo parlava del cadavere di una donna ebrea tra i venticinque e i trent’anni (altezza 155 centimetri, capelli corti color mogano), morta per arresto cardiaco mentre si nascondeva nella foresta, forse nel tentativo di passare il confine. Il suo corpo, scoperto da un ragazzino, raccontava molte bugie: di anni Eva ne aveva solo diciannove. Anzi, diciannove e mezzo.

Ero la sorella maggiore, scrive Maria Izsak da Ra’anana, Israele, nel 1984, ma la guardavo dal basso. Lei era la luce, io la sua
ombra. Non era lei a mettersi su un piedistallo, e neppure ero io che la idealizzavo: la sua intelligenza, il suo spirito, la sua fame di conoscenza e di giustizia erano il gradino che la innalzava al di sopra di me, e di chiunque la incontrasse. Eppure mi invidiava.

Con candore, Eva elogiava la mia calma, la mia semplicità. La verità e che le cose erano perfette cosi: ci completavamo. Se lei correva troppo, c’ero io a rallentarla. Quando mi accontentavo, lei mi spronava a volere di più. Luce e ombra. Non ho saputo proteggerla. Senza di me a compensare la sua luce, Eva ha brillato troppo e ha fatto paura. Invece che scaldarsi nei suoi raggi, invece che approfittare del chiarore che la sua presenza gettava sulle cose per meglio comprenderle, hanno deciso che non doveva risplendere più. Era la mia sorellina, oggi penso a lei come se fosse mia figlia. Io ho sessant’anni,lei continuerà per sempre ad averne diciannove. Anzi, diciannove e mezzo. Non cancelliamo quei sei mesi dalla sua vita già cosi breve.

 

Sono passati quasi dieci anni da quando ho sentito parlare di Eva Izsak per la prima volta. Nella foto che mi mostro il professor Toth aveva sedici anni, sedeva con la sorella Maria sul gradino dell’ingresso della loro casa a Szatmar. ≪Sorrideva poco eva, come se dentro di se portasse già il presentimento di una fine precoce. Ma quando sorrideva era bella come solo a quella eta si puo essere. Incarnato di
porcellana, 
tratti mediterranei, non minuti ma armoniosi.≫ Imre Toth me la descriveva e intanto disegnava i lineamenti nell’aria come se l’avesse ancora davanti agli occhi. Di quella foto non ho chiesto una copia e ora mi sforzo, senza riuscirci di ricordarne i dettagli. Ma ne ho trovata un’altra in rete quando ho digitato per la prima volta il suo nome: un primo piano, un’intrusione in bianco e nero tra le pose
di una sua 
omonima che fu Miss Venezuela nel 1991. Ho ingrandito la fotografia e l’ho stampata su un foglio A4, sgranandola appena. L’ho messa tra i materiali che tengo sul tavolo mentre scrivo. Qui Eva ha i capelli scuri raccolti in un’acconciatura a onde, belle
sopracciglia arcuate, gli occhi nerissimi e volitivi che guardano l’obiettivo un po’ dal basso, la bocca sottile, un’ombra di sorriso. Mi sforzo di trovare tracce di premonizioni, di sventura. Ha un’espressione risoluta, quasi di sfida o di fame.

 

≪Era una che viveva di corsa, come se non fosse mai soddisfatta… Non aveva un’istruzione e faceva tutto da sola, leggeva, studiava, faceva domande a chiunque ne sapesse piu di lei su qualunque argomento e aveva un modo di starti a sentire… con tutto il corpo, capisci? La guardavi e ti accorgevi che non stava semplicemente ascoltando, stava assorbendo ogni parola, muoveva in fretta gli occhi ed era come assistere alla costruzione di qualcosa, intuivi che li dentro, sotto quella massa di capelli scuri, lei andava man mano costruendo le sue idee.

 

Era bellissimo, ma era anche una enorme responsabilità. Eva non aveva filtri, qualche volta faticava a distinguere il peso specifico delle cose… guai a contraddirsi in sua presenza…≫

 

Toth ha sorriso. ≪Ricordava ogni frase e ti metteva alle strette in un attimo. La coerenza per lei non era un valore a cui aderire… era semplicemente nella natura delle cose.≫ Mentre lo diceva, il suo sguardo si e fatto scuro. Su internet ho trovato anche una foto di Maria. Ha un viso più dolce di quello di Eva, una morbidezza nello sguardo che ritrovo nelle sue parole. Se e vero, come mi ha detto il professore, che l’espressione di Eva anticipava la sua fine, allora mi viene da dire che il volto di Maria prefigurava il suo futuro di madre. Era destino, Maria, vorrei dirle, sapendo che e una sciocchezza bisogna cercarlo con l’altro nome, quello con cui e diventato celebre. Eccolo: stempiatura, occhiali dalla montatura spessa, un’espressione melliflua che mette a disagio. La faccia di Imre Lakatos, il grande filosofo, mi appare ripugnante tanto quanto gli occhi di Eva mi toccano il cuore. E perché so, ovvio, eppure non riesco a non pensare che, se avessi incontrato l’uomo senza conoscere la storia, avrei comunque avuto paura. Non la rabbia che sento adesso, ma un terrore istintivo. Non sono l’unica. Leggendo stralci di interviste di chi l’ha conosciuto, colleziono un elenco di aggettivi che gelano il sangue: diabolico, mefistofelico, algido, perfido, machiavellico, perverso. Eppure accanto a questa lista sono costretta ad appuntarne un’altra che fatico ad accettare – geniale, brillante, carismatico, coltissimo, seducente -, ed è qui, mi dico, che devo sforzarmi di trovare la ragione che convinse Eva a darsi la morte.

Ho incontrato Imre Toth a Napoli all’inizio del 2006, al termine di una sua conferenza all’Istituto di studi filosofici. Lui e mia madre si erano conosciuti a Parigi a meta degli anni Novanta, e da quel momento le loro rispettive carriere accademiche si erano incrociate un paio di volte nelle grandi università europee. Non era mai nata una vera amicizia, ma un rapporto di stima reciproca. La conferenza, lo ammetto, non m’interessava granché. Ma ascoltarlo fu un piacere: occhi azzurri e sguardo penetrante, barba ne foltane rada, di un bianco tendente all’argento, l’aria distaccata di chi vive in un mondo lontano. Il professore aveva un fascino senza età, nonostante le oltre ottanta primavere, e modi seduttivi. Dopo le presentazioni si e fermato con noi a fare qualche chiacchiera di circostanza. Sapevo del suo passato nella resistenza ungherese, cosi come della prigione, della fine atroce della sua famiglia, e non mi sarebbe dispiaciuto intervistarlo per un progetto a cui stavo lavorando.

Sara un libro di memorie – gli ho detto in francese, – la storia della mia famiglia e della famiglia di mio marito, tra le Grandi Guerre. Un racconto generazionale alla Isabel Allende, se mi perdona la presunzione…≫

Lui mi fissava con gli occhi blu e un’aria annoiata, ma un leggerissimo sorriso, forse solo immaginato, mi ha dato il coraggio di proseguire.

≪La famiglia di mio marito e tedesca, i miei figli sono ancora dei bambini e non e facile per loro capire… Cosi ho pensato di raccontare la grande storia come se fosse vista attraverso il buco della serratura: ascoltavo il loro nonno Opa che ricordava e ho incominciato a prendere appunti. Ora mi piacerebbe raccogliere altre storie disperse tra le pieghe della storia ufficiale… per avere delle versioni piu soggettive, individuali, ecco.≫

 

Il professor Toth mi ha guardata serio senza dire una parola per almeno quindici secondi. Finche,quando ormai avevo attraversato tutte le fasi dell’imbarazzo e mi ero convinta che le uniche due strade percorribili fossero andarsene o cambiare argomento, ha deciso di parlare: ≪Se le va di ascoltare un vecchio trombone disincantato che ogni tanto ha ancora voglia di raccontare qualche storia, mi venga a trovare quando passa da Parigi≫. Mi ha scritto il suo numero di telefono. Al posto del suo nome ha schizzato un calligramma che disegnava il suo profilo, e una frase presa in prestito da Pindaro: ≪Sogno di un’ombra e l’uomo≫. 

(continua in libreria)

Libri consigliati