Incontro con Mario Biondi autore di Con il Buddha di Alessandro Magno. Dall’ellenismo sull’Indo ai misteri del Tibet ISBN:9788879289863

Nel IV secolo prima dell’Era Comune, sulle rive dell’Indo avvenne un incontro singolare quanto fatale. Alessandro Magno aveva portato fino a lì la grande cultura ellenistica, e contemporaneamente da lì stava transitando la parola del Buddha. Le due culture — lontanissime eppure con remote consonanze nel Buddha stesso e in Pitagora — si fusero, creando un sincretismo ellenistico-buddista che fu trasportato dai predicatori e pellegrini che viaggiavano con i commercianti sulla Via della Seta attraverso l’Asia Centrale fino alla Cina e poi, con tracce sempre meno evidenti ma sempre vive, al remoto Tibet. In Con il Buddha di Alessandro Magno. Dall’ellenismo sull’Indo ai misteri del Tibet, Mario Biondi racconta con le stesse cadenze di un romanzo d’avventura (ma coltissimo) la serie di viaggi con cui ha seguito i passi di quegli antichi personaggi su un mirabile itinerario di arte, cultura e storia. Ne abbiamo parlato con lui.

D. Lei scrive “i veri viaggi alimentano se stessi”. Avviene la stessa cosa con i libri? Se non sbaglio questo è il suo terzo libro di viaggio.

R. E il mio sedicesimo in totale. I libri si alimentano senza dubbio tra loro: dalla lettura (o per la composizione) di uno di essi discende quasi ineluttabilmente la lettura o perlomeno la consultazione di altri. E i ricordi di viaggio possono benissimo alimentare narrazioni di altro genere. Nei miei racconti e romanzi ho attinto a piene mani da quei ricordi: Istanbul, Parigi, New York, la Siria, l’Algeria… Anche i tre libri che lei ricorda, secondo me sono “romanzi di viaggio”. Non le pare che ci sia dentro una sufficiente dose di narrazione, azione e avventura?

D. Un viaggio dall’Indo all’Everest sulle tracce del Buddha che lei chiama “di Alessandro Magno” che cosa ci può insegnare sul mondo odierno e sul rapporto fra culture?

R. Ci insegna quali possono essere i mirabili frutti dell’incontro tra le culture, e quanto sia inutile, se non futile, pensare soltanto in termini di elevare muri intorno all’orticello (non di rado per non far vedere all’esterno che è coltivato male). La Muraglia cinese ha insegnato che i muri non servono a niente se non quando vengono superati, per esempio quando i “barbari del Nord” penetravano in Cina: pensi ai turchi Wei del Nord e ai capolavori che hanno lasciato da Datong a Luoyang, al mongolo Kublai Khan, agli stessi turchi Manciù. Non credo ci potesse essere qualcosa di più diverso della cultura ellenistica da quella buddista, eppure dal loro incontro sull’Indo è nata la mirabile sintesi della cultura del Gandh?ra, con tutti i benèfici influssi che essa ha distributo a piene mani sul millenario percorso del Buddha fino all’Himalaya e all’Estremo Oriente.

D. Oggi si fa un gran parlare di Cina, ma come possiamo provare a capire qualcosa di più su questo paese così antico ed esteso, senza inciampare nei cliché?

R. La Cina (Tibet compreso) è soltanto la conclusione del lunghissimo viaggio che racconto in Con il Buddha di Alessandro Magno. C’è anche il Pakistan, per esempio, con molte delle sue contraddizioni. E per quanto il Tibet sia politicamente Cina, non lo è di sicuro culturalmente. Per cercare di conoscere e capire paesi così grandi e complessi è indispensabile andarli a vedere, senza fidarsi troppo delle cronache. Per questo, come tutti i criminali che si rispettano, io amo tornare sul “luogo del delitto”. Pensi, 6 volte in Cina, ma almeno 35 in Turchia, diverse in Iran, Siria, Algeria, Stati Uniti…
 
D. Da sempre subiamo il fascino del mito del viaggiatore britannico, eppure anche gli italiani non sono stati da meno.

R. Io non lo subisco affatto. Marco Polo era britannico? Eppure è andato in Cina molto prima di loro, e disarmato, senza i cannoni e i massacri delle Guerre dell’Oppio, perpetrati dai britannici — si badi bene — non già per SVENTARE ma per IMPORRE ai cinesi il libero commercio di quella letale sostanza. Erano gli occidentali a vendere l’oppio e, a pensarci bene, parrebbe quasi che adesso la Nemesi si sia rivolta contro di noi. E nel mio libro appaiono tanti altri nomi di italiani andati a scoprire l’Asia Centrale, l’Estremo Oriente e la Cina ben prima dei britannici: Odorico da Pordenone, Giovanni di Pian del Carpine, Mattia Ricci, Ippolito Desideri. E poi Giuseppe Tucci, Fosco Maraini, Tiziano Terzani. Tutti uomini di grande cultura e splendidi scrittori. E tutti disarmati. Ah, già, anche l’America, pare sia stata scoperta da un italiano…
 
D. Il suo essere scrittore di narrativa in che modo influenza il suo approccio al viaggio?

R. Non saprei. Io non viaggio allo scopo di raccontare. Viaggio perché per me è vitale, e dopo aver viaggiato penso che, avendo visto cose notevoli, forse farei bene a raccontarle.
 
D. Alcuni viaggiatori ci presentano avventure straordinarie, imprese eroiche e incontri unici. Lei descrive anche i limiti (fisici, culturali, metereologici) che il viaggiatore affronta nella sua quotidiana umanità. Il viaggio è fatto anche dalle occasioni perdute? 

R. Non necessariamente un viaggio in sé, ma senz’altro i successivi, che non di rado sono intrapresi — almeno in parte — proprio per riparare a quelle occasioni perdute. Cose sfuggite per mancanza di informazione, o di tempo, o di mezzi di trasporto adeguati, o anche per problemi di salute. Quest’ultima può giocare bruttissimi scherzi: il viaggiatore di norma non è Superman ma un uomo, con tutte le sue debolezze. Viaggiando capita di non stare bene, ed è più problematico curarsi. E ancora di più lo è per le viaggiatrici: quanti miei itinerari sono stati ispirati da straordinari personaggi come Freya Stark, Alexandra David-Néel, Ella Maillart. Medio Oriente, Iran, Asia Centrale, Cina, Tibet. Magnifiche viaggiatrici e donne di ferro anche di fronte alla fragilità del corpo umano.

D. Il viaggio è fatto anche di sorprese: che cosa c’entra Jackie Chan con il buddismo?

R. Tra le infinite cose in cui ci si imbatte viaggiando può capitare di scoprirne una singolarissima come questi tortuosi rapporti (ma prima di lui c’era Bruce Lee). Li ho scoperti qualche anno fa nel monastero degli Shaolin nell’Henan cinese, dove in realtà ero andato per vedere le splendide grotte del Buddha di Longmen. La visita agli Shaolin non l’avevo in programma, ma è stata un diversivo molto piacevole. Si tratta di un piccolo, vetusto monastero dove alla preghiera fanno da corollario lo sganassone e la pedata in faccia al nemico. Per quei santi uomini era una forma di autodifesa, ma nei secoli ha generato il kung fu. E il kung fu ha generato centinaia di film, in cui ha primeggiato appunto Jackie Chan. Attorno a quel vecchio monastero sono sorte decine di scuole frequentate da ragazzini che, nella speranza di acciuffare per il collo il successo come è capitato a lui — e di occhieggiare da milioni di poster invitando i cinesi a usare la carta di credito —, diventano magnifici artisti e acrobati. Li abbiamo visti in azione anche nella cerimonia di inaugurazione delle ultime Olimpiadi. Come ho scritto in Con il Buddha di Alessandro Magno, le vie del Buddha sono davvero infinite.

D. E adesso?

R. Adesso, dopo aver visitato una quarantina di paesi, anche molto grandi, cercando di capire qualcosa, mi sono reso conto di avere visto sì e no un quinto del mondo. Chi mi regala un altro paio di vite? Meglio quattro…

“Con il Buddha di Alessandro Magno” su YouTube

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