Il nuovo romanzo di Luca Ricci, “Gli autunnali”, è la storia di un matrimonio giunto agli sgoccioli, e del folle amore di un uomo per una donna del passato, conosciuta solo in fotografia… – Su ilLibraio.it un capitolo

Compagna di Amedeo Modigliani, modella per diversi artisti del circolo Montparnasse e pittrice a sua volta, la bellissima e tormentata Jeanne Hébuterne era nota con il soprannome “noce di cocco”, dovuto ai lunghi capelli castani. È sua la fotografia, rispettosamente piegata in quattro parti, che un uomo porta a passeggio per le vie di una Roma autunnale, come se stesse portando a zonzo la sua fidanzata: l’uomo è vittima di un inguaribile amour fou, un amore folle che travalica presente e passato.

luca ricci gli autunnali la nave di teseo copertina

Sono questi i presupposti da cui prende vita Gli autunnali (La Nave di Teseo), il nuovo romanzo dello scrittore pisano Luca Ricci (che, come abbiamo anticipato, potrebbe essere tra i libri candidati al premio Strega 2018, ndr), classe ’74, autore di L’amore e altre forme d’odio (Einaudi), Mabel dice sì (Einaudi), e insegnante presso la Scuola Holden di Torino. Con Gli autunnali, Ricci propone una spietata introspezione in quello che rimane di un matrimonio quando non vi è più sentimento o qualsivoglia romanticismo, costringendo il lettore a divincolarsi tra le continue menzogne dei personaggi, vittime di un amore portato alle estreme conseguenze. Il tutto, sul palcoscenico di un autunno romano.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del romanzo:

Strappai dal libro la pagina con la foto di Jeanne e cominciai a portarla sempre con me. L’avevo rapita dalla sua storia maledetta con Modigliani, l’avevo tratta in salvo dal suo passato drammatico. Me la tenevo in tasca, preferibilmente (giaceva piegata in quattro, ma con molto rispetto). Facevo lunghe passeggiate nella luce buona di settembre che i romanzieri erano soliti chiamare “lama”. Ma quale lama! Era un liquido amniotico appena più denso di una fosforescenza lunare, il fiotto di piscio d’un angelo. E ridevo di continuo delle lame spuntate dei romanzieri mediocri e di altri miti dell’Occidente, tipo il lavoro o il tempo libero. I parchi e le ville s’apparecchiavano dei colori dell’autunno: quei rossi, quei gialli, quei marroni, quegli arancioni, che sono la vera primavera dei temperamenti inquieti. Era paradossale, eppure per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo in comunione con qualcun altro. Non m’importava neppure d’approfondire il senso di quei sentimenti, non volevo sciuparli con la lucidità. L’amore si dimostrava da sé, era un fenomeno auto-evidente e disprezzava le argomentazioni e anche le analisi e pure i dibattiti: si amava perché sì. Quando c’era l’amore non c’era il disamore, quando c’era il disamore non c’era l’amore. Se l’autunno era un culto, il parco era il tempio, la panchina l’altare, il cappotto la tonaca, le foglie l’incenso, il bacio l’ostia e Jeanne la sacerdotessa. Non era una religione solo mia, quello no, ma non potevano praticarla gli uomini e le donne dal cuore stupido.

Dunque amavo una foto piegata in quattro che tenevo in tasca, e per giunta pretendevo di esserne ricambiato? Tutto sommato era una condizione più solida di quella di tante altre coppie che incrociavo per strada, un tripudio di musi lunghi e pacchetti al braccio lasciati dondolare controvoglia: quanti esimi disgraziati al di sopra di ogni sospetto. Qualcuno avrebbe potuto obiettare che un vivo e un morto erano una coppia male assortita, ma il mio metro era la capacità d’amore, non lo stringato dato anagrafico. Tiravo fuori la foto quando mi pareva, dentro un bar, oppure attraversando un ponte, o sopra un bus, e poggiavo le labbra su quelle di Jeanne, delicatamente, in modo che la carta non si sciupasse (anche se in fondo il potere di sfigurarla in modo permanente – con un nonnulla, perfino con la simulazione di un bacio – mi mandava fuori di testa dall’eccitazione). Spesso giocavo a dare a Jeanne un corpo non suo, il corpo di un’altra donna che notavo in mezzo a quel tripudio di nuche e caffè che sono le mattine e i pomeriggi d’inizio autunno, questa ouverture allegra e solenne al contempo in cui, non del tutto guariti dalla sventatezza estiva, viene da amarsi baciando altri che amano altri ancora. Mi piacevano soprattutto le donne che indossavano già i cappotti – insieme a Gittani mi ero sempre ripromesso di comporre un’ode al cappotto autunnale –, con i bottoni saltati e le cinture penzoloni: niente di più eccitante di un corpo quasi completamente celato (gelato lo sarebbe diventato, presto, per l’autunno e altri scherzi ancor meglio architettati, come la malattia o la vecchiaia o la morte). E che sussulti quando azzeccavo la combinazione, quando Jeanne restando Jeanne prendeva fattezze tangibili, smetteva d’essere una fantasticheria, se non altro dal collo in giù. Non le guardavo quasi mai in faccia le altre, me ne fregavo, perché ero sicuro che nessuna avrebbe potuto tenerle testa (alla lettera!). Il viso tenebroso di Jeanne era la sintesi perfetta di ciò che amavo di più dell’autunno: il fulgore del buio.

(Continua in libreria…)

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