Tra il 1978 e il 1995 un terrorista, definito dall’FBI Unabomber, sconvolse l’America con i suoi ripetuti e apparentemente casuali pacchi bomba. “Manhunt: unabomber”, miniserie drammatica di otto episodi, prodotta da Netflix, racconta la storia della sua cattura… – L’approfondimento di Ilenia Zodiaco, su “una partita a scacchi che non scade mai nel puro gioco intellettuale”

Tra il 1978 e il 1995 un terrorista, definito dall’FBI Unabomber, sconvolse l’America con i suoi ripetuti e apparentemente casuali pacchi bomba. Manhunt: unabomber, miniserie drammatica di otto episodi, prodotta da Netflix, racconta la storia della sua cattura.

La serie rappresenta un altro tassello del sempre più intricato mosaico della serialità true crime, un genere che attinge a piene mani dagli episodi più oscuri della cronaca. Manhunt arriva proprio a ridosso dell’uscita della seconda stagione di American Crime Story – del canale via cavo FX e disponibile in Italia su Fox Crime – dedicata all’omicidio di Versace (la prima stagione invece si soffermava sul processo contro O.J. Simpson). Rimanendo sempre in casa Netflix, però, è più corretto paragonare Manhunt al cugino Mindhunter, persino il titolo simile sembra suggerirlo.

Rispetto a serie crime dal taglio più classico, entrambi i prodotti di Netflix sono impegnati non tanto nella risoluzione dei casi, ma nel mostrarci come vengono affrontati. La metodologia d’inchiesta è alla base di entrambe le serie. Se Mindhunter ha fotografato l’assurgere della psicologia criminale, coronata dalla coniazione del termine serial killer, Manhunt invece si occupa della nascita e infine della legittimazione della linguistica forense, anch’essa campo d’applicazione senza precedenti giuridici.

Prima di tutto, quindi, si tratta di una narrazione che storicizza il passaggio da un metodo d’indagine tradizionale – chiaramente incapace di capire la criminalità di una società più complessa e stratificata – a favore di un approccio sperimentale e di una multidisciplinarietà che si apre alla sociologia, alla psicologia comportamentale e in generale al mondo accademico.

In Manhunt, il neo profiler dell’FBI, Jim “Fitz” Fitzgerald (Sam Worthington), viene coinvolto nell’indagine consacrata alla più lunga caccia all’uomo negli Stati Uniti d’America. Pochissimi gli indizi e, nonostante l’immane lavoro della scientifica, ancor meno le piste. Un lavoro praticamente impossibile, un vicolo cieco per molti. Un aiuto decisivo però viene proprio da Unabomber, bramoso di gloria, che invia alla stampa il suo Manifesto: “La società industriale e il suo futuro”. Un documento che evidenzia non solo le psicosi dell’uomo, ma anche il disagio sociale e le storture della contemporaneità. Nel delirio reazionario contro la tecnologia e le istituzioni, infatti, si percepisce senz’altro una rabbia di fondo, un senso d’ingiustizia e d’impotenza che, anche a distanza di decenni, trova più di qualche riscontro nella nostra attuale società.

Non avendo altro materiale se non le parole del terrorista, l’agente Fitz decide di basarsi proprio sul codice linguistico dell’uomo per ricavarne un profilo attendibile; fino a quel momento infatti si credeva che Unabomber fosse un meccanico sottoalfabetizzato. Facendo un uso davvero pioneristico della linguistica, Fitz riesce a trovare un idioletto, ovvero l’insieme dei tratti linguistici caratteristici e propri di un singolo individuo o di un gruppo di parlanti (per esempio, di una determinata regione). “Dimmi come parli e ti dirò come pensi”, non è soltanto una massima ma, se applicata propriamente, può diventare un metodo. Nel caso specifico, una strategia efficace per identificare e infine catturare l’intelligentissimo Ted Kaczynski (interpretato dall’eccellente Paul Bettany).

L’approccio metodologico dell’indagine mostrata in Manhunt non è scevra da conseguenze: prima di tutto, conduce a rivedere la dinamica “mostro/vittima”. Un terrorista è anche il prodotto di un ambiente, non soltanto un caso isolato. Questo naturalmente porta a un’inevitabile riflessione su se stessi e sul mondo che ci circonda. L’agente Fitz e i suoi colleghi quindi non rimarranno immuni all’influenza di Unabomber e alle sue idee. In questo, Manhunt è persino vicino al genere noir o hard boiled, in cui la risoluzione del caso – se arriva – non porta quasi mai a un trionfo della giustizia e il detective rimane inevitabilmente segnato dal caso. “Se scruti a lungo nell’abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”.

Manhunt è una serie brillante che vive di intuizioni, una partita a scacchi che non scade mai nel puro gioco intellettuale ma mette sempre in evidenza l’efferatezza di un comportamento sociopatico. Nonostante la potenza della figura di Unabomber, carismatico ex docente di matematica, gli sceneggiatori non sono scivolati nell’indulgenza e ci hanno regalato la perfetta (e umana) rappresentazione di un simbolo oscuro e indelebile nell’immaginario collettivo.

L’AUTRICE – Qui gli articoli di Ilenia Zodiaco per ilLibraio.it

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