Tutto, ma proprio tutto quello che c’è da sapere sulle metafore, grazie al saggio di Francesca Ervas ed Elisabetta Gola che, in una dettagliata doppia intervista a ilLibraio.it, spiegano l’evoluzione dell’uso di questa fondamentale figura retorica

Sentirsi come un pesce fuor d’acqua: ecco la metafora che illustra la copertina del recentissimo manualetto Che cos’è la metafora di Francesca Ervas ed Elisabetta Gola* (Carocci). La lettura di questo breve ma efficacissimo studio ci fa capire quanto le nostre giornate siano piene di metafore, anche se spesso coloriamo i nostri discorsi senza rifletterci. Per gettare luce sulla nostra vita con le metafore, sulla loro forza comunicativa ed esplicativa, ma anche sulla capacità di strapparci un sorriso, o di farci… acquistare un prodotto, ilLibraio.it ha intervistato le autrici. (P.S. – Avete visto quante metafore in questa introduzione?)

 metafora

Il nostro linguaggio di tutti i giorni è zuppo di metafore (cvd), per quanto non ne siamo sempre consapevoli. Che cosa perderemmo, in un ipotetico futuro senza metafore?
Elisabetta Gola: “Se abbiamo ragione su ciò che sosteniamo nel nostro lavoro, Che cos’è una metafora, perderemmo buona parte di ciò che siamo in grado di capire e di comunicare. Ciò che conosciamo è letteralmente ancorato alla nostra esperienza percettiva della realtà, ma da questa ci allontaniamo subito con il gioco simbolico, con l’inganno semiotico (di cui son capaci anche altre specie animali), ingredienti fondamentali per le possibilità del linguaggio figurato. Ma troviamo subito anche metafore primitive, come quelle nascoste nei nostri gesti che riproducono la struttura dei movimenti osservati percettivamente e che poi proiettiamo nella nostra lingua, quando, per esempio, parliamo di concetti astratti come il tempo o i sentimenti: ‘andare avanti nel lavoro/in una relazione/nella ricerca’, ‘rimanere nel guado di un rapporto che non va né avanti né indietro’. Metafore concettuali come quelle di orientamento (per cui, per esempio, il su viene visto come ‘positività’ e il giù al contrario come situazione problematica), come la metafora del percorso (per cui rappresentiamo attività ed eventi come percorsi) o come la metafora del conoscere come vedere, sono onnipresenti, anche in lingue molto diverse fra loro, come l’inglese e il giapponese. Anche alcune metafore più culturali sono largamente condivise: per esempio ci si ispira spesso all’idea di guerra per parlare di attività che non sarebbero necessariamente competitive, come anche una banale discussione (pensiamo a quando diciamo frasi come ‘non ha saputo difendere la sua idea’). Sono tutti esempi di idee di cui dovremmo fare a meno in un futuro che non contemplasse le metafore tra i nostri strumenti di ragionamento e comunicazione”.

elisabetta golaElisabetta Gola insegna Teoria dei linguaggi e della comunicazione all’Università di Cagliari. Sul tema della metafora ha pubblicato diversi testi fra cui Metafora e mente meccanica (Cagliari 2005).

Quali sono le funzioni principali che assolvono nella nostra vita quotidiana?
Elisabetta Gola: “Le metafore sono gli schemi che guidano le nostre azioni, il nostro modo di vedere il mondo. Anche per immaginare chi siamo abbiamo bisogno di metafore: non abbiamo davvero un ‘dentro’, ma è il luogo dove collochiamo il nostro io, usando la metafora concettuale del contenitore, una delle metafore primarie, radicate nelle nostre esperienze percettive. Le metafore ci servono anche per dare un nome alle cose o agli eventi che non riusciamo a descrivere letteralmente”.

Per esempio?
Elisabetta Gola: “Ricorriamo alle metafore quando non riusciamo a parlare in modo letterale di situazioni emotivamente troppo forti: di fronte a un lutto, a una grave malattia, tendiamo ad usare metafore ed espressioni idiomatiche, che assolvono in questo caso la funzione di abbassare la tensione che una descrizione troppo letterale susciterebbe. Infine una delle funzioni che più viene riconosciuta alle metafore è quella esegetica: quando non comprendiamo qualcosa, perché è difficile o perché è nuova per noi, possiamo essere instradati con una immagine metaforica che ci aiuti a costruire nuove idee partendo da concetti analoghi, che presentino le stesse proprietà. Per esempio, la conoscenza del ‘comportamento’ del burro fuso è utile a capire il processo di formazione delle rocce sedimentarie, che non può essere osservato dal vivo. Ma possiamo invece osservare il comportamento del burro fuso per imparare che, a temperature sufficientemente alte, certi tipi di rocce cambiano stato e quando si raffreddano lo ricambiano ancora. E capire così come si siano stratificate”.


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Le metafore… muoiono? O meglio, all’interno della stessa cultura che le ha prodotte, le metafore hanno una durata limitata, per quanto variabile?
Francesca Ervas: “Le metafore sono come gli esseri umani: nascono, vivono (in una o più comunità), viaggiano da una comunità all’altra, muoiono… ma a differenza degli esseri umani, possono risorgere! Molti dei termini che consideriamo ‘letterali’ sono in realtà delle metafore morte, pensiamo ad esempio alle ‘gambe del tavolo’ o al ‘collo della bottiglia’… una comunità di persone che parlano la stessa lingua (l’italiano) li ha introdotti inizialmente come metafore, in modo consapevole, e poi con l’uso di quella stessa comunità in cui sono nati, si sono consumati fino a diventare letterali. E possono morire in vari modi. A volte le parole che compongono la metafora si fondono insieme, nel tempo, tanto da diventare indistinguibili. Per esempio, ‘Daisy’ (‘margherita’ in inglese) deriva da una metafora: ‘day’s eye’ (‘l’occhio del giorno’)”.

Chi “uccide” le metafore?
Francesca Ervas: “I mezzi di comunicazione di massa sono i migliori sicari delle metafore proprio perché ne amplificano l’uso: pensiamo alla ‘morsa del freddo’ delle previsioni del tempo o alla ‘stella del cinema’ dei rotocalchi rosa… Ecco appunto le ‘stars’ del cinema, una metafora che viaggia da una lingua (e cultura) all’altra… In tutti questi casi diciamo che le metafore sono ‘lessicalizzate’. Sono entrate nel vocabolario. Nessuno ci pensa più, a meno che qualcuno non ci faccia riflettere in qualche modo… Allora la metafora ‘risorge’, riprende vita e svela a volte gli stereotipi di una persona o di quella comunità che l’ha creata. Pensiamo a espressioni comuni come ‘Non sono la tua segretaria!’, o meno comuni come ‘Se gli uomini non fossero cacciatori, le donne non sarebbero prede…’”.


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Le metafore possono essere interpretate correttamente e, dunque, comprese da comunità di parlanti molto lontane tra loro?
Francesca Ervas: “Se parliamo di metafore concettuali, sì. Sono anzi alla base della possibilità di comprendere le idee su cui vengono rappresentate le nostre conoscenze. Le metafore concettuali hanno dei tratti ‘universali’, comuni a più lingue e culture. Lakoff e Johnson (1980), e dopo di loro molti altri studiosi come Kövecses (2005), ritengono infatti che le espressioni metaforiche siano il riflesso superficiale di una struttura concettuale più profonda, ‘incarnata’ nel modo in cui gli uomini sono fatti. E tutti gli uomini in quanto uomini si assomigliano. Per esempio, le emozioni sono meccanismi fisiologici uguali per tutti gli uomini e le metafore che utilizziamo per esprimere le emozioni (metafore primarie), diversamente da altre metafore meno legate alla fisiologia umana, si ritrovano in comunità di parlanti anche molto distanti tra loro. Per esempio quando diciamo ‘Non poteva più tenere dentro quello che sentiva ed è scoppiato dalla rabbia’ usiamo la metafora della rabbia come pressione su un contenitore. Membri di comunità anche molto distanti fra loro, come quella inglese, ungherese, giapponese, cinese, zulu, polacca, wolof e tahitiana, hanno buone possibilità di capirci, perché condividono questa metafora e più profondamente l’esperienza fisiologica della rabbia come calore che fa aumentare la temperatura del corpo fino a farlo ‘esplodere’… Ci sono comunque tratti più specificamente culturali anche nelle metafore primarie. Per esempio, in giapponese, il contenitore in cui si cerca di trattenere la rabbia è la pancia (hara) e può cambiare al cambiare della pressione: quando la rabbia trabocca dall’hara, finisce nel torace (mune) e infine, quando si perde totalmente il controllo, nella testa (atama)… e lì, diversamente da quando si trova nella pancia e nel torace, la rabbia non può più essere razionalizzata!”.

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Abbiamo sperimentato tutti, andando all’estero, le difficoltà di comunicare, appena i parlanti locali introducono forme idiomatiche, metafore,… Quali sono le condizioni per comprendere appieno una metafora?
Francesca Ervas: “In effetti, non sembrano essere molti i casi in cui le metafore nella lingua straniera corrispondono alle nostre. Le ‘mele marcie’, per esempio, esistono anche a Londra, come ‘rotten apples’, ma sono appunto casi rari. Per la maggior parte, gli usi figurati, soprattutto nei modi in cui vengono usati nelle singole lingue, presentano specificità che ne rendono difficile la comprensione, se non si è parte della comunità linguistica. Più ci si allontana da esperienze basilari “condivise” e dalle metafore primarie, e più le espressioni metaforiche si fanno “culturalmente specifiche” e di difficile interpretazione. Anche metafore morte come “abbozzo di un sorriso” potrebbero creare problemi a parlanti la lingua inglese, abituati ad esprimere lo stesso concetto con ‘ghost of a smile’. Per “mantenere lo stesso significato”, l’immagine del tratteggio in matita di un disegno dovrebbe essere scambiata con quella evanescente di uno spettro. Beh, mi direte, non è proprio lo stesso significato! Bisognerebbe parlare con le immagini di quella lingua per dire che si capisce veramente quella lingua, ma ciò comporta molto tempo per “vivere” a contatto con quella lingua. A maggior ragione poi, nel caso delle metafore vive, più creative, dove anche il suono del corrispondente termine letterale è fondamentale, o delle metafore ironiche, dove anche la conoscenza del contesto sociale, politico e culturale gioca un ruolo decisivo nella comprensione.
Come facciamo dunque a comprendere una metafora? Cerchiamo di capire prima il significato letterale o direttamente quello figurato? Che ruolo ha il contesto? E quanto è importante la nostra capacità di leggere l’intenzione dell’interlocutore? Nel nostro testo discutiamo vari modelli della comprensione delle metafore… ma non vogliamo svelare già da ora per quale modello parteggiamo!”.

Come possiamo tradurre le metafore? È meglio se ci atteniamo alla traduzione conservativa, o se adattiamo il concetto alla lingua di destinazione, cercando un’espressione corrispondente o parafrasando la metafora di partenza?
Francesca Ervas: “La domanda presuppone che sia possibile tradurre le metafore… Altrove ho cercato di mostrare che non è possibile trovare un perfetto equivalente di una metafora in un’altra lingua… ma ciò non vuol dire che non sia possibile tradurre le metafore! La traduzione, come tutte le azioni umane, è perfettibile, e si può realizzare in molti modi. In Che cos’è una metafora, pensiamo che il modo ‘migliore’ per tradurre dipenda soprattutto dal tipo di metafora. Le metafore morte, lessicalizzate, possono essere spesso tradotte letteralmente. Si basano su schemi concettuali così diffusi e consolidati, che possiamo spesso trovare nell’altra lingua un’espressione corrispondente (sebbene non completamente equivalente). L’espressione delle emozioni tramite metafore trova spesso valide alternative: “mi sento giù” può essere tradotto in inglese con ‘I feel down’. Se ci allontaniamo dalle metafore primarie, possiamo ancora trovare degli equivalenti, pensiamo ad esempio a ‘ondata di gente’ che possiamo tradurre con ‘wave of people’, mantenendo la stessa immagine della massa d’acqua in movimento. Ma più ci allontaniamo dalle metafore primarie, e più “rischiamo” di dover cambiare immagine nella lingua di arrivo, pensiamo all’esempio dell’ ‘abbozzo’ e del ‘fantasma’…. Per le metafore vive il discorso è ancora più complesso e la traduzione può diventare un’ardua impresa (ma per fortuna sono più rare!). Come tradurre la metafora montaliana dell’’aria di vetro’ o del ‘cavallo stramazzato’? Possiamo tradurla letteralmente o parafrasarla, ma perderemmo il suono della lingua in cui è stata creata… Soprattutto nella poesia, la traduzione può allora essere una ‘perdita’ del potere espressivo e comunicativo della metafora… oppure la necessità di un atto totalmente ricreativo. In quest’ultimo caso però molto dipende dal traduttore: Rilke ha fatto diventare immortali le metafore di Louise Labé traducendo le sue poesie!”.

Genere, etnia, provenienza sociale e regionale possono influenzare la scelta e l’impiego di metafore diverse?
Francesca Ervas: “Certamente, le metafore non variano solo interculturalmente, ma anche all’interno della stessa cultura… Le lingue stesse, infatti, non sono monolitiche e riflettono le divergenze date dall’esperienza umana su più dimensioni: sociale, etnica, di genere, solo per citarne alcune. Per esempio, ci sono molte differenze tra le metafore utilizzate dagli uomini per parlare delle donne e le metafore utilizzate dalle donne per parlare degli uomini… In lingua inglese, ma anche in italiano, vengono utilizzate espressioni metaforiche che rimandano all’idea della donna come un uccello (passerotti o galline, in senso dispregiativo) o come un cibo dolce (torte o biscotti)… con tutti gli stereotipi tacitamente collegati a queste immagini! In giapponese, prevale la metafora della donna come merce di cui si è proprietari o che si vende… Non sono metafore socialmente accettabili se si parla di uomini. Ci sono anche metafore strettamente legate a gruppi etnici”.

Francesca ErvasFrancesca Ervas insegna Filosofia del linguaggio all’Università di Cagliari. Ha pubblicato Pensare e parlare (Roma 2016) e curato, con E. Gola, Metaphor and Communication (Amsterdam 2016).

Per esempio?
Francesca Ervas: “È molto interessante l’uso di termini legati al cibo per parlare delle differenze di identità fra gruppi etnici o nazioni: marranos (maiali) sono stati nominati quei musulmani o ebrei che si convertivano al Cattolicesimo, proprio perché le loro leggi religiose proibivano di mangiare carne di maiale, rane sono chiamati i francesi dagli inglesi proprio perché ritenute una prelibatezza dai francesi, al contrario degli inglesi. Oltre a suddividere le persone in diversi gruppi etnici/nazionali, le metafore del cibo servono a distinguere il ‘noi’ da ‘gli altri’ e a ricordare il meccanismo di assimilazione (più o meno riuscito a seconda del cibo…). In questo senso, la metafora del melting pot, in cui la diversità culturale sembrava essere persa ‘in un unico calderone’, è stata gradualmente sostituita da altre metafore come quelle del salad bowl, tomato soup o ethnic stew in cui i diversi ingredienti conservano il loro sapore, o fuor di metafora, le diverse provenienze culturali mantengono la propria identità!”.

La metafora nel mondo accademico va impiegata con moderazione o se ne può fare un largo uso? Per quali ragioni?
Elisabetta Gola: “Le metafore utilizzate in ambito scientifico suscitano reazioni di odio o di passione, ma è difficile farne a meno: l’universo viene descritto in modo più o meno elegante, i geni sono egoisti, il cosmo è come una sinfonia di strumenti a corda, assistiamo a battaglie tra teorie. Gli scienziati sono divisi su questo tema: c’è chi ritiene che non dobbiamo commettere metafore, se vogliamo mantenere un rigore e un linguaggio scientifici rispetto alla spiegazione di un fenomeno e chi invece pensa che per comprendere la realtà, rappresentarla e comunicarla le metafore siano indispensabili. In quest’ultimo caso si è disposti anche a concedere che si possano generare fraintendimenti, adottando una metafora poco efficace o non del tutto idonea rispetto al tema da spiegare. Tuttavia questo è un prezzo che in molti suggeriscono di pagare in nome della possibilità di diffondere la conoscenza scientifica tra i non esperti. E del resto, più o meno consapevolmente, i primi a non riuscire a fare e meno di metafore sono gli stessi scienziati che vorrebbero evitarle. Come è possibile pensare che ne possano fare a meno i non accademici e le persone non addette ai lavori della ricerca scientifica?”.

Quale rapporto intercorre tra il mondo della pubblicità e la metafora? E quale ruolo gioca l’immagine?
Elisabetta Gola: “La comunicazione pubblicitaria è uno degli ambiti in cui il ruolo della metafora ha un impatto indubbio nel favorire la comprensibilità e la persuasività di un messaggio. E in particolare la pubblicità è uno dei domini dove vengono maggiormente utilizzate le metafore visive, in cui le parole di un payoff, per esempio, possono essere spiegate, sottolineate, amplificate dall’accostamento con una immagine legata in senso figurato al testo. Prendiamo il caso del cioccolatino che viene rappresentato graficamente come una valigia e del commento testuale ‘Il tuo compagno di viaggio’. Oppure le immagini che sono intrinsecamente metaforiche come la panchina che diventa una tavoletta di cioccolato: nel mondo della pubblicità, la scelta delle parole, l’accostamento con le immagini, la semantica del colore, l’eventuale musica, esprimono schemi e frames impliciti nel nostro immaginario. Queste scelte entrano in gioco come elementi di primo piano nella ‘felicità’ della metafora, ossia nella sua capacità di colpire nel segno stimolando il comportamento che si cerca di indurre col messaggio pubblicitario”.

 

 

 

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