Quanto fa paura la malattia? La domanda è retorica. Perché la risposta è ovvia. Con un’aggiunta: solo la morte ci terrorizza di più. E quando si parla di cancro, di tumore, l’unione tra i due termini è quasi automatica, per non dire etimologica. Se si parla di bambini malati, poi, è ancora peggio. Braccialetti Rossi, la fiction di Rai 1 in onda la domenica sera, coprodotta da Palomar e Rai Fiction ha affrontato questo tema. Malattie gravi, ospedali, bambini lungodegenti, genitori coraggiosi, medici, che diventano mamme e papà dei loro pazienti. La sceneggiatura è tratta da Braccialetti Rossi (Salani, 2014) il libro autobiografico dello scrittore catalano Albert Espinosa. Cadoinpiedi.it lo ha incontrato.

DOMANDA: Braccialetti Rossi racconta la sua storia, quella di un ragazzino malato di cancro. Quanto è difficile a quell’età affrontare una malattia così grave?

RISPOSTA: Sono stato malato per 10 anni. Ho perso una gamba, un polmone e mezzo fegato. E’ stato durissimo, ma sono stato felice della gente che ho incontrato, del mio papà e della mia mamma di ospedale e dei braccialetti rossi che mi hanno molto aiutato.

D: Cosa le hanno insegnato i suoi “genitori di ospedale”?

R: Mia madre mi ha insegnato che non è triste morire, quello che è veramente triste è non vivere intensamente. E il mio papà di ospedale mi ha fatto capire che qualunque perdita può essere un guadagno.

D: In che senso?
R: Mi ha spiegato che non avevo perso una gamba, bensì avevo guadagnato un moncherino. Ho imparato che si può vivere con la metà di quello che hai. E sono riuscito perfino a sorridere.

D: Può farci un esempio?
R: Mi hanno tolto un pezzo di fegato e quello che hanno lasciato dentro di me è a forma di stella. Da allora ho sempre avuto la sensazione di portare dentro uno sceriffo.

D: Qual è l’aspetto più difficile del convivere con la malattia?
R: Credo che sia il fatto che la gente ha un’idea sbagliata del cancro infantile. E penso, invece che sia molto importante che le persone conoscano davvero la realtà.

D: Perché?
R: Le faccio un esempio. La persone vengono tantissimo a farti visita nelle prime settimane della malattia, ma poi si dimenticano. E fa male. Avevamo una frase che dicevamo spesso tra di noi: “Il nostro destino non è morire di cancro, ma di noia”. Ecco perché la cosa più bella che penso sia venuta fuori dalla serie tivù non è tanto che sia stata venduta in molti Paesi o che Steven Spielperg abbia comprato i diritti. La cosa più bella è che le visite negli ospedali in Spagna sono aumentate del 40%.

D: Credevo che la cosa più difficile fosse dire addio ai compagni di braccialetto. Non è così?
R: E’ vero, la cosa più complicata è vedere morire ragazzi che hanno appena 14 anni, ma la mia mamma di ospedale ci ha insegnato come superare anche questo.

D: E come si fa?
R: Dovevamo dividere la vita che perdevano dentro di noi.

D: Quante ne ha “divise”?
R: In 10 anni di ospedale, quando ho fatto il conto e ho diviso tutte le vite che erano state perse sono arrivato a contarne 3,7 più la mia, e fanno 4,7. Sono tutte dentro di me.

D: Come reagisce la società alla malattia?

R: Le persone non capiscono quello che hai. E penso che far loro capire i tuoi sentimenti sia la cosa giusta. Per esempio, le gambe ortopediche: spesso la gente non sa come sono veramente, crede che siano di legno, un po’ come le gambe dei pirati. E quando cammino per strada con i pantaloni corti vedo che fanno di tutto per evitare di guardare la mia, poi subito dopo la fissano. Ma invece di fissarla perché non mi chiedono quanto sia importante per la mia vita questa gamba?

D: Non succede mai?
R: Quasi mai.

D: Quali sono stati i rischi maggiori nell’affrontare un tema così complesso in un libro o una fiction tivù?
R: Penso sia stato essere fedele il più possibile ai miei ricordi. Desideravo scrivere la mia storia anche come omaggio ai miei amici e alla nostra lotta. Non abbiamo avuto una motocicletta nella nostra adolescenza, ma una sedia a rotelle, non potevamo andare in discoteca, ma avevamo sette piani di ospedale tutti nostri. E abbiamo imparato che dovevamo vivere intensamente.

D: Lei racconta la malattia da bambini e adolescenti. Crede sia diverso per un adulto?

R: Io sono stato malato 10 anni. Sono stato malato da bambino, adolescente e adulto. E l’unica cosa che cambia è quello che lasci fuori dall’ospedale. Quello che si ferma nella tua vita “normale”. Può essere il calcio quando sei bambino, l’università, il lavoro, la famiglia. L’esperienza è uguale a tutte le età: è dura, ma anche arricchente.

D: In che modo?
R: C’è una frase che mi piace ricordare per descrivere questa esperienza: “Quando credi di conoscere tutte le risposte, arriva qualcosa dal cielo che ti cambia tutte le domande”. Ed è quello che bisogna fare per continuare a credere.

D: Quanto conta un supporto anche psicologico per affrontare una simile situazione?

R: E’ fondamentale questo aspetto. Ci curavano molto in questo senso, e ci hanno insegnato a parlare della nostra malattia.

D: Qual è stata la volta che l’hanno aiutata di più?
R: Quando a 14 anni mi hanno suggerito di fare una festa di addio alla mia gamba. Ho invitato tutti. E’ stata una bella festa.

D: Lei dice che un cancro toglie tanto, ma può anche dare tanto. Cosa le ha dato?

R: Mi ha tolto tante parti del mio corpo, ma mi ha insegnato tanto. Come ho già detto, qualsiasi perdita può essere trasformata in un guadagno. Ho imparato a essere adulto a 14 anni e tutti mi trattavano come tale. Ho imparato allora a vivere intensamente e non ho mai smesso.

D: La fiction tivù in Italia ha avuto un’accoglienza per lo più positiva. Se lo aspettava?

R: Ho scritto tutti i copioni della serie tivù, ma non ho mai avuto la sensazione netta che il messaggio sarebbe passato in questo modo. E stato come uscire da una piccola stanza ed entrare in un grande schermo. Ringrazio tutti, davvero.

D: Qual è il messaggio che vuole dare ai piccoli pazienti che stanno vivendo adesso quello che lei ha già vissuto?
R: Lotta e vivi intesamente. Ma quello che io posso dire lo sanno già. Quando sei malato tiri fuori una forza preziosa e incredibile che ti fa combattere. Ho scritto questa serie televisiva per loro, perché avessero degli eroi nei personaggi. I miei eroi non hanno cappa e spada, portano braccialetti rossi.

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