Composta tra il 1914 e il 1915 e tradotta in Italia nel 1943 per volontà di Cesare Pavese, l’”Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters è una delle opere imprescindibili della letteratura angloamericana. Su ilLibraio.it la prefazione di Marco Malvaldi alla nuova edizione di Mondadori Ragazzi, con le illustrazioni di Giovanni “Gioz” Scarduelli

Sembrano dormire, ma non dormono davvero, Frank Drummer il matto, l’attrice Flossie Cabanis, il dottor Siegfried Iseman e i tanti altri uomini e donne che sono sepolti nel cimitero sulla collina di Spoon River. E infatti uno per uno si rivolgono, attraverso le loro lapidi, a noi lettori di oggi, in un dialogo tanto coinvolgente quanto incredibile. Raccontano i momenti più intensi delle loro vite, rievocano amori più o meno felici, denunciano i torti subiti: ma soprattutto, rivelano ciascuno la propria visione, fulminea e indimenticabile, della vita, costruendo pagina dopo pagina un’appassionante narrazione corale.

Composta tra il 1914 e il 1915 e tradotta in Italia nel 1943 per volontà di Cesare Pavese, l’Antologia di Spoon River è una delle opere imprescindibili della letteratura angloamericana, che ha plasmato l’immaginazione di intere generazioni. In questa nuova edizione Mondadori, pensata per i ragazzi e introdotta da Marco Malvaldi, noto giallista e lettore appassionato dell’Antologia, i personaggi di Edgar Lee Masters prendono vita grazie alle affascinanti di Giovanni “Gioz” Scarduelli.

antologia di spoon river

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, la prefazione d’autore

di Marco Malvaldi

A memoria, alla memoria, alla faccia della memoria.

Credo sia mio dovere, all’inizio di questa introduzione, mettere subito le cose in chiaro: io, al libro che avete in mano, devo molto. E per convincervene, la cosa migliore che posso fare è citare – a memoria,

perdonerete eventuali errori e a ogni modo potete andare subito a confrontare le mie parole con quelle della traduzione pubblicata in questo volume – una delle mie poesie preferite, quella di Alexander Throckmorton:

Quando ero giovane, le mie ali erano forti e instancabili,
ma non conoscevo le montagne.
Da vecchio, conoscevo le montagne, ma le mie ali erano stanche
e non riuscivano a sorreggermi più in volo –
il genio è saggezza e gioventù.

Che cosa c’entra, questo, con il Malvaldi? Con me come persona, non molto – a parte avere favorito l’ineluttabile presa di coscienza del fatto che non sono un genio, cosa che avevo capito per conto mio già un po’ prima di guadare lo Spoon River –, ma con me come scrittore di gialli, parecchio. Quando, scrivendo il mio primo giallo, ho iniziato a pensare a un investigatore geniale, mi è venuta in mente questa poesia, e mi sono detto che si poteva creare un genio a partire da persone perfettamente normali, bastava prenderne due: un giovane e un vecchio. Poi, siccome siamo in Italia e di vecchietti ne abbiamo in abbondanza, questi ultimi si sono imposti e sono entrati di prepotenza nel cocktail, in proporzione di quattro a uno: due coppie di pensionati e un giovane barrista (senza virgolette: le virgolette attutiscono, e la lettera in più si sentirebbe sola).

E di questo debito sono talmente consapevole che, nello scegliere l’esergo al terzo libro dei vecchietti (ero convinto che sarebbe stato l’ultimo) scelsi proprio la lapide di Throckmorton come esempio di quello che, non essendo in grado di scrivere poesie, avevo tentato di dire nei miei tre libri. La concisione richiede sforzo e bravura, lo sapeva bene Voltaire quando diceva: «Scusa se ti scrivo una lettera così lunga, ma non avevo tempo per scriverne una breve». Ma la poesia non è solo concisione. La poesia, diceva Italo Calvino, è l’arte di versare il mare in un bicchiere. E questo è esattamente quello che fa Edgar Lee Masters, descrivendo le persone non da vive, ma attraverso il loro epitaffio.

Il libro che avete in mano è uscito per la prima volta nel 1915, ed ebbe fin da subito un enorme successo; fu l’unico per Masters, che scrisse altre raccolte di versi, le quali non si avvicinarono mai a questa né come accoglienza né come sostanza. In Italia arrivò per volontà di un grande scrittore, Cesare Pavese, che ne affidò la traduzione alla giovane Fernando Pivano (sua ex allieva al liceo D’Azeglio, e della quale anni dopo si innamorò perdutamente). Il libro uscì (sfuggendo alla censura fascista) per Einaudi nel 1943, con il titolo Antologia di S. River. Un espediente – quello dell’epitaffio – già usato in passato, perché efficacissimo.

Poche frasi semplici e concise, che scolpire il marmo non è né facile né economico: ma in quelle frasi, o in quella frase, deve essere concentrata l’intera essenza della vita di quell’individuo, il significato più sincero del suo passaggio nel mondo dei vivi.

Ma anche quelli che hanno tentato di sfuggire a questa regola hanno di fatto rivelato il loro spirito nella scelta del loro ultimo saluto: da Ennio Flaiano, che voleva che sulla sua tomba venisse incisa la frase «Torno subito», al nonno estremamente aggressivo e indisponente di un anonimo umorista, sotto la cui foto al cimitero c’era scritto: «Che cazzo guardi?».

D’altro canto, l’austero mondo delle lapidi dei grandi uomini è irto di epigrammi volontariamente densi di significato: da Immanuel Kant (nemmeno la cito, la conoscete tutti) ad Arthur Conan Doyle («Acciaio sincero, lama diritta»). A volte, quando si tratta di scienziati, l’epitaffio invece di essere una frase è una formula: quella dell’entropia, S = k. log W, sulla tomba di Ludwig Eduard Boltzmann, o l’equazione del moto della meccanica quantistica relativistica, incisa sulla lapide di Paul Dirac. Se si è grandi uomini, lasciare un epitaffio significativo è facile, ma se si è persone comuni? Be’, in questo caso può venire in aiuto quella che è la seconda regola non scritta dell’epigrafe funebre.

Nel film di Dino Risi Straziami ma di baci saziami, una vera e propria chicca che tratta del delicato tema dell’amore fra stupidi, compare una lapide indimenticabile, quella del padre-padrone di Marisa, Artemio Di Giovanni, la cui morte rende finalmente possibile il matrimonio tra sua figlia e Marino: sul marmo, campeggia il memorabile ricordo del caro estinto.

ARTEMIO DI GIOVANNI

ARTISTA SUBLIME
MARITO ESEMPLARE
PADRE AMOREVOLE

E sotto, in carattere più piccolo, la spiegazione:

EGLI STESSO SCOLPÌ

Ed ecco la seconda regola: il proprio epitaffio lo si sceglie da soli. È una delle poche libertà assolute che ci possiamo concedere, una di quelle che possiamo esercitare nella certezza di non recare danno materiale ad altri che non siano noi stessi (coprendoci di ridicolo con un eccesso di retorica o con esagerata immodestia). Ma in ogni caso, sarà molto difficile non rivelare la nostra unicità, e questo coincide con un’altra grande intuizione di Edgar Lee Masters: non ci dobbiamo porre il problema di quale messaggio ai posteri lascerebbe una persona qualunque, perché le persone qualunque non esistono.

L’Antologia di Spoon River ci suggerisce che non è possibile pensare una persona la cui esistenza non sia in grado di lasciare un messaggio potente: sia per le cose che ha realizzato, sia per quelle che non è riuscita a realizzare. In ognuno di noi si possono leggere grandi imprese, in positivo o in negativo – quasi sempre entrambi: anche nella follia totale di Frank Drummer, che nel suo epitaffio racconta ai lettori di aver cercato di essere riconosciuto come sapiente imparando a memoria l’Enciclopedia Britannica, c’è un’intenzione di grandezza.

E quanti di noi, come Frank Drummer, non hanno cercato riconoscimento da parte degli altri recitando a pappagallo cose che non capivano? Quanti non hanno vissuto la propria inadeguatezza fisica, come il giudice Selah Lively?

La loro riconoscibilità è talmente esplicita che questi due personaggi sono tra gli otto prescelti da Fabrizio De André per comparire nel suo album capolavoro, Non al denaro non all’amore né al cielo, senza il loro nome, ma con la loro caratteristica distintiva: un matto e un giudice.

Leggendo gli epitaffi di Masters, come capita ogni volta che leggiamo grande letteratura, noi in realtà leggiamo di noi stessi. Ogni tre, quattro poesie troviamo un pezzetto del nostro comportamento, e l’infinita gamma degli errori e delle grandezze umane si compone di fronte ai nostri occhi; così come combinando una ventina di lettere dell’alfabeto si possono scrivere sia Amleto sia Tre uomini in barca, con le poche decine di esseri umani di Spoon River si possono inanellare lungo un filo della giusta lunghezza i tanti vizi e le poche virtù di qualsiasi essere umano. Per questo, secondo me, non finiamo mai di stupirci nel leggere queste poesie, e nel vedere come il loro significato cambi nel tempo. Sono pochi gli epitaffi che con il passare degli anni sono rimasti al loro posto, nella inevitabile classifica di bellezza che si forma nella mia testa ogni volta che leggo un libro di poesie: tra questi ci sono epigrammi fulminanti come quello di Griffy il bottaio, che sospettavo essere vero da giovane, e che ho scoperto adesso da adulto essere ancora più vero, ma in modo diverso da come me lo immaginavo. Non è il caso, qui, di essere espliciti: il bello delle poesie è che ognuno le interpreta in modo diverso, magari la differenza è sottile ma c’è sempre, e non voglio influenzarvi mentre vi accingete a leggere uno dei più sinceri libri di poesia mai pensati.

Dopo la morte, i personaggi si mostrano sinceri: non gliene frega più nulla dei riconoscimenti del mondo, e non hanno interesse a mentire riguardo a se stessi.

Non così quando parlano degli altri, come leggiamo in molte delle roventi scritte sulle fredde lapidi di Spoon River. A volte li osservano con serenità, come la defunta contessa Navigato contempla il marito che, probabilmente, la avvelenò. Altre volte con stupore, come Charlie French che si chiede quale dei suoi amici gli sparò alla mano con la scacciacani, togliendogli una vita che stava appena iniziando.

Ma la maggior parte delle volte, chi sta sotto la lapide ha finalmente capito che la causa principale della propria rovina è stato lui stesso o lei stessa in persona.

E nessuno lo capisce come il protagonista della mia poesia preferita in assoluto dell’Antologia di Spoon River: il donnaiolo Lucius Atherton, uno dei pochi che parla esplicitamente di aldilà e che rimane

incantato nell’ascoltare, là dove si trova ora, una grande ombra «che canta le lodi di una certa Beatrice».

E anche noi rimaniamo incantati nel leggere Masters che parla di Atherton che parla di Dante che canta Beatrice: un poeta che parla di un uomo che parla di un poeta che parla di una donna. Si tratta di una struttura che si costruisce su se stessa, una costruzione che col passare del tempo non solo non decade ma genera nuova poesia, come un codice genetico che attraverso la sua manifestazione fisica – il libro – rende possibile agli uomini di incrociare i loro pensieri con quelli dei grandi poeti, e di produrne di nuovi, più evoluti e più complessi. A volte peggiori – non resisteranno, come i libri miei e quelli di tanti altri – a volte migliori, ma inevitabilmente più complessi. E il tempo, piano piano, li filtra, e lascia scorrere con maggior facilità i migliori, quelli più belli e insieme più significativi, permettendo a noi uomini di migliorare con esso. Dandoci una direzione, non una strada, e lasciandoci il compito di esplorare e di goderci un cammino che non si esaurirà certo con noi.

© Riproduzione riservata

Illustrazioni di Giovanni “Gioz” Scarduelli
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano

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