Una lettera a cuore aperto, personale eppure universale, scritta con l’intenzione di essere un incoraggiamento (per i ragazzi, ma anche per gli adulti). Su ilLibraio.it un estratto da “Io, mio padre e le formiche”, il nuovo libro di Rosella Postorino

“Il 15 giugno di tre anni fa, in una piazza del Campo affollatissima, da un palco lessi il mio discorso d’augurio ai neolaureati dell’Università di Siena, in qualità di ex studentessa dell’ateneo. Quando nel 1996 ero partita con mio padre per immatricolarmi, e in macchina avevamo cantato insieme Lucio Dalla, mai avrei immaginato che sarei tornata lì, anni dopo, per raccontare la mia storia a migliaia di ragazzi sulla soglia del futuro“. In quell’occasione Rosella Postorino, autrice di successo (con Le assaggiatrici, Feltrinelli, ha vinto il premio Campiello) ed editor di Einaudi Stile Libero, ha detto loro quale privilegio fosse stato per lei la possibilità di studiare, e di permettersi di sognare di fare la scrittrice.

In quel discorso, Postorino (già autrice per Salani di Tutti giù per terra), li ha pregati di rifuggire dalla semplificazione, di provare a indossare i panni degli altri, di sentirsi sempre in difetto di conoscenza, ma soprattutto di non aver paura di inseguire i propri talenti.

Quasi tre anni dopo, quel discorso si amplia, si arricchisce, e diventa un libro, Io, mio padre e le formiche – Lettera ai ragazzi sui desideri e sul domani (Salani): idealmente si rivolge di nuovo a quei ragazzi, e in modo indiretto agli adulti che vivono accanto a loro.

Parla di fragilità e di forza, della ricerca maldestra della felicità, e anche dell’amore. Delle domande cui, forse, non c’è risposta. Ma che non dovremmo mai smettere di farci. Un libro, quello firmato da Rosella Postorino, che ha esordito nella narrativa nel 2004 con il racconto In una capsula all’interno dell’antologia Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi), che raccoglie riflessioni sui temi più importanti della vita di chiunque, non solo dei ragazzi chiamati ad affrontare un rito di passaggio. Una lettera a cuore aperto, sincera, personale, eppure universale, scritta con l’intenzione di essere un incoraggiamento, o una carezza.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…)

Voi ve lo ricordate, il vostro primo giorno a Siena, quando avete cominciato l’università? Io sì, e stata la prima e unica volta che ho visto mio padre piangere. E piangeva per me. Mi aveva già portata qui per iscrivermi all’esame di ammissione, poi mi aveva portata di nuovo il giorno dell’esame, e poi ancora a cercare una stanza, quando avevamo avuto la notizia che ero stata ammessa, ma ogni volta mi aveva riportata indietro con sé, e in macchina avevamo cantato Lucio Dalla, insieme, sempre la stessa canzone, che si intitolava Canzone, appunto. Avevamo comprato la musicassetta in un autogrill – sì, c’erano ancora le musicassette nel 1996, non per niente era il secolo scorso – e a furia di metterla a ripetizione l’avevamo imparata a memoria. Non credo di aver vissuto con mio padre un giorno più dolce di quello in cui sostenni l’esame di ammissione all’università. E non credo nemmeno di averlo mai ringraziato di essermi stato accanto, di non avermi lasciata sola in quel mio primo tentativo di diventare adulta, anche se diventare adulta mi avrebbe separata da lui. Inaspettatamente ce l’avevo fatta, ero una dei centocinquanta ammessi. Dico inaspettatamente perché i candidati erano più di milleseicento, e ho il sospetto che di fronte a quel numero mio padre ci avesse sperato. Che non entrassi, intendo. Così non avrei dovuto trasferirmi, andarmene di casa. Invece una domenica di ottobre si trovò con mia madre a lasciarmi al convitto Santa Teresa, quello davanti al cinema Pendola – che avrei presto eletto tra i miei luoghi preferiti –, perché il lunedì avrebbero avuto inizio le lezioni, e dopo avermi salutato frettolosamente prese di corsa le scale per non farsi vedere con le lacrime agli occhi.

Vi sembrerà troppo intimo, forse, questo racconto, ma devo partire da qui per dirvi che cosa è stata per me l’università. È stata un privilegio.

Voi obietterete che lo studio non è un privilegio, che è un diritto, e avete ragione. L’Università di Siena d’altronde me l’ha dimostrato, dandomi la possibilità, con le sue borse di studio, di studiare appunto quel che più mi piaceva, anche se di mestiere mio padre vendeva frutta e verdura e quel che mi piaceva non lo capiva fino in fondo – però si fidava. A stento, certo, perché lui è fatto a modo suo, ma si fidava. «Ogni individuo ha diritto all’istruzione» dice la Dichiarazione universale dei diritti umani, ma sappiamo che non è così dappertutto, e perciò voi e io siamo dei privilegiati.

Nel mondo ci sono 57 milioni di persone cui l’istruzione è negata e ci sono 130 milioni di bambini che frequentano le scuole senza tuttavia acquisire le competenze basiche dell’alfabetizzazione, leggere, scrivere, assimilare rudimenti di calcolo matematico. Il 60% o quasi di quei 130 milioni sono femmine. Chi è escluso dal diritto all’istruzione – lo dicono le statistiche – rischia un destino di sfruttamento sociale e sessuale, di lavoro minorile e matrimonio precoce. A noi non è toccato, noi siamo stati liberi di formarci, e abbiamo intrapreso gli studi accademici perché credevamo che l’istruzione fosse la via principale per la libertà.

Io continuo a crederlo, sebbene oggi il sapere e la conoscenza non siano più di moda, anzi vengano addirittura stigmatizzati…

(continua in libreria…)

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