“Sempre più, come editori, dobbiamo pensare al di là dell’oggetto libro, dobbiamo accudire e accompagnare (direttamente!) le idee e l’immaginazione degli autori in altri formati, altri media, altri linguaggi…” – Su ilLibraio.it un estratto dall’introduzione di Francesco Guglieri al volume “Biblioteca”

Francesco Guglieri è editor di narrativa per Einaudi. Collabora con diverse testate e ha pubblicato nel 2020 Leggere la terra e il cielo (Laterza); è inoltre tra gli autori di The Game Unplugged (Einaudi, 2019). Per Treccani Libri ha curato e introdotto il volume Biblioteca.

Esiste infatti un luogo che condensa magicamente il sapere universale incutendo timore e soggezione ma allo stesso tempo suscitando come nessun altro stupore e senso di pace: siamo in biblioteca. Da quelle dell’antico Oriente alle greche preellenistiche, dalla famosa, storica alessandrina a quelle di Roma e del mondo romano, dalle cristiane alle medievali, dalle rinascimentali fino a quelle moderne, spettacolari, di Parigi, Londra, del Vaticano, questo volume è un viaggio nel tempo e nello spazio alla scoperta dei modi in cui popoli ed età diverse hanno conservato lo scibile e tramandato ai posteri l’eredità culturale del passato.

Da considerare che in un’età nella quale la stampa non era ancora stata inventata una biblioteca non era soltanto raccolta, ma anche officina di manoscritti, dove i rotoli venivano sì acquistati, ma anche copiati. Non è solo la storia a essere raccontata in queste pagine, che ricostruiscono anche i diversi criteri di ordinamento e archiviazione, le varie scelte architettoniche, di distribuzione interna degli spazi, di estetica, di illuminazione, per offrirci lo spettacolo dei luoghi della conoscenza nella sua interezza.

biblioteca treccani

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, un estratto dall’introduzione di Francesco Guglieri a Biblioteca, AAVV (Treccani Libri, 2022):

(…) Come immaginare, pubblicare e diffondere libri nel tempo del content trionfante? Certo, si può fare finta di niente, convincersi che quello del libro è un mercato diverso, con le sue fragilità e incertezze, ma tutto sommato solido, che ha saputo resistere all’avvento di Amazon e dell’ebook, che non ha fatto la fine del mercato musicale (non c’è uno Spotify dei libri e difficilmente arriverà a breve).

Possiamo sempre citare il sempre citato Umberto Eco che diceva che il libro è come il cucchiaio: un’invenzione che è difficile migliorare. E tutto questo è vero. Soprattutto, credo, il discorso del cucchiaio: il “device libro cartaceo” è una forma che nessuna aggiunta elettronica o conversione digitale potrà superare. Ma se il libro rimane, tutto quello che c’è intorno sta cambiando e cambierà ancora più radicalmente nel prossimo futuro. Ignorarlo è un errore di prospettiva che alla lunga si potrebbe dimostrare fatale.

Quello che ho chiamato content è l’orizzonte entro cui i libri appaiono, il mondo in cui si pubblicano, il modo in cui si comunicano e vendono oggi. Oggi, non domani.

Penso che il compito principale di chi farà editoria sia proteggere le idee e le storie, le autrici e gli autori (del presente come del passato: il catalogo) dal “trasformarsi in content”. Dall’essere cioè unicamente delle occasioni per estrarre dati dall’esperienza, essere contenuto pianificato per soddisfare le richieste di lettori ridotti a pubblico, a utenti profilati ognuno dentro la sua nicchia di mercato e di identità.

Questo sapendo che con la logica del content dobbiamo comunque averci a che fare, come editori: ogni volta che il libro poi proviamo a proporlo al suo lettore ideale, che lo facciamo circolare e lo comunichiamo. E che sempre più, come editori, dobbiamo pensare al di là dell’oggetto libro, dobbiamo accudire e accompagnare (direttamente!) le idee e l’immaginazione degli autori in altri formati, altri media, altri linguaggi.

In questi nuovi e vecchi formati portarli in giro in un mondo che parla la lingua del content, e dargli la massima circolazione possibile, senza trasformarli a loro volta in content. Dobbiamo imparare a usare la lingua del content, e “distinguere tra ciò che è mero contenuto e ciò che non lo è”, prima che qualcun altro lo faccia al posto nostro. L’editore è ancora – direi anzi: sempre più – l’innesco fondamentale della circolazione di storie e sensibilità. Ma se lavoreremo più per far felici i nostri stessi social media manager che i nostri lettori, se pubblicheremo più per dare in pasto alle piattaforme del materiale con cui consumare l’attenzione dei navigatori che per contagiare col germe di un’idea nuova la mente di un giovane curioso, se creeremo content per soddisfare identità plasmate dall’algoritmo invece di dare ascolto a voci inascoltate, allora spariremo.

Ci affidiamo ad algoritmi e sistemi computazionali per trovare la strada da percorrere, scegliere quale film vedere, quali azioni comprare, quale lavoro accettare, quale libro leggere. Non solo “usiamo” gli algoritmi, ma ci “fidiamo” di loro. E facciamo un atto di fede perché non potremmo fare altrimenti, tanto sono oscuri, impenetrabili, al di là della nostra comprensione. Non solo per la loro intrinseca complessità, che a volte esorbita anche da chi li programma, ma perché sono fuori dal controllo pubblico, proprietà di soggetti privati, chiusi in impenetrabili “scatole nere” di società per azioni che ci impediscono di capirne il funzionamento e la logica. I medesimi soggetti (i big della Silicon Valley) che ammantano di trascendente le loro promesse tecno-utopiste di trasformazione della società e della vita.

La nostra cultura presunta algoritmica non è un fenomeno materiale quanto religioso, una supplica rivolta ai computer a cui le persone hanno permesso di sostituire gli dèi nella loro mente, nel momento stesso in cui sostengono che la scienza ci ha resi impermeabili alla religione

scrive il critico della cultura digitale Ian Bogost. Più immaginiamo gli algoritmi e la cultura che plasmano come l’apice del pensiero razionalista e dell’Illuminismo, più il rapporto che intratteniamo con loro funziona diversamente:

attraverso schermate linde e oscure application program interfaces, ci viene chiesto di prendere queste elaborazioni per fede. Come gli operai mal pagati che producono i nostri gadget high-tech sono nascosti dietro il design elegante e le trovate di marketing di oggetti in metallo satinato che sembrano provenire direttamente da una qualche utopia meccanica non toccata da mani umane, così noi, l’avido pubblico di quell’utopia, accettiamo i risultati degli algoritmi software senza discuterli, come prodotti magici dell’elaborazione. La mercificazione dell’Illuminismo ha un prezzo. Trasforma il progresso e l’efficienza computazionale in una prestazione, uno spettacolo che cela le decisioni reali e i do ut des dietro il mito del codice onnisciente.

All’editoria moderna e alle biblioteche, l’Illuminismo affidò una promessa di emancipazione e libertà. Una promessa che passa dalla difesa dell’interesse pubblico alla promozione della creatività individuale, dell’espressione di sentimenti e stili di vita diversi, della circolazione delle idee e del loro reciproco, conflittuale, influenzarsi.
Non tradiamo quella promessa.

(continua in libreria…)

Fotografia header: GettyEditorial 01-06-2021

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