“Acchiappafantasmi” di Giordano Meacci è un libro strano, un po’ come le facce di Bill Murray nei film di Wes Anderson, in cui il titolo pop si traveste, tuttavia, subito, da gesto apotropaico: se i fantasmi non si possono scacciare, tanto vale acchiapparli e farne buon uso, trasformarli in materiali per una lotta contro il tempo, per riscrivere l’universo e trasformarli in “carne e sangue di parole”. Dentro trovano spazio testi teatrali, racconti, pseudosaggi, testi radiofonici. Un “canzoniere in prosa”, lo definisce l’autore, un “romanzo diffratto per racconti” da attraversare, più che leggere linearmente…

Uno spettro si aggira fra le pagine dell’ultimo libro di Giordano Meacci, uno spettro con molti alias e tanti trucchi: può chiamarsi Vincent McKenna, che con una sigaretta ciancicata in bocca canta Shelter from the storm di Bob Dylan; può chiamarsi Phil Connors, che vuole fare un reportage sul “Giorno della marmotta”; può chiamarsi Peter Venkman che decide di imbarcarsi in un’impresa disperata e quasi certamente destinata a fallire: può chiamarsi in molti modi, ma la faccia è sempre quella di Bill Murray, e proprio con la maschera del ghostbuster apre questo Acchiappafantasmi (minimum fax) di Meacci. Un libro strano, un po’ come le facce di Murray nei film di Wes Anderson, in cui il titolo pop si traveste, tuttavia, subito, da gesto apotropaico: se i fantasmi non si possono scacciare, tanto vale acchiapparli e farne buon uso, trasformarli in materiali per una lotta contro il tempo, per riscrivere l’universo e trasformarli in “carne e sangue di parole”.

Un libro strano anche perché c’è dentro di tutto: testi teatrali, racconti, pseudosaggi, testi radiofonici, un “canzoniere in prosa”, lo definisce l’autore, un “romanzo diffratto per racconti” da attraversare, più che leggere linearmente, saltando a piacimento, inseguendo, ognuno a modo suo, gli spettri acchiappati dall’autore.

A tenere insieme questo universo affatto eterogeneo sta, innanzitutto, la consapevolezza, quasi adorniana, che la forma è contenuto sedimentato, una forma, si legge fin dalle prime pagine, “ogni volta battezza e riscrive l’universo che nasce con lei”, è il senso e il significato e finanche la giustificazione del testo – e quindi si può anche inventarla, la lingua, come il “cinghialese” a cui Meacci dà vita nel romanzo Il cinghiale che uccise Liberty Valence.

Cosa sarebbe d’altronde i Promessi sposi senza la lingua, senza la sua forma? “Si scarnificherebbe nella sua ossatura primaria, nel suo archetipo nascosto e segreto. L’isso, essa, e o’ malamente della sceneggiata napoletana”: e per averne una prova basterebbe davvero solamente ascoltarla la lingua dei Promessi sposi (e lo si può fare con gran profitto su Ad alta voce di Radio 3) per rendersi conto, seppur tardivamente, come il sottoscritto, quanto faccia (e faccia bene) quella lingua.

Giordano Meacci Acchiappafantasmi

Proprio questa qualità sonora fa da collante per molte di queste pagine: la parola, che Meacci dice di vedere continuamente “per iscritto”, è in realtà molto più spesso voce, phoné, parola parlata, parola ascoltata, magari anche cantata: è la parola dei molti testi teatrali, o quella messa in bocca agli spettri di Bob Dylan, Elvis Presley, Paolo Conte, o quella radiofonica dei bellissimi ritratti delle sezioni “Chi fa la lingua”, originariamente scritti per il programma La lingua batte di Radio 3.

Qui, davvero, Meacci si mostra maestro del ritratto, che prende forma e consistenza attraverso la descrizione, appunto, della parola, sussurrata, cantata, gridata, gestualizzata: che sia la “lingua madre dell’Es più infuocato e intrattenibile” di Anna Magnani; o quella dell’abbondanza di Totò, “il clown nero” che è eccesso, fonetico, anche di punteggiatura, come nella famosissima lettera di Totò, Peppino e la malafemmina, o nella ripetizione ossessiva di 47 morto che parla; oppure la parola “di classe”, come quella della piccolissima borghesia italiana che Vincenzo Cerami, in Un borghese piccolo piccolo, esplora, tra i primi, in letteratura; e ancora Primo Levi, che “parla sempre al presente”; Emma Perodi, oggi quasi del tutto dimenticata, ma autrice, a fine Ottocento, di popolarissimi racconti per l’infanzia che non lesinano a goticheggiare; e Franca Violi, il cui rifiuto del matrimonio riparatore, fra le molte altre cose, ha fatto anche diventare “immediatamente di competenza linguistica nazionale” alcuni termini del siciliano; e la parola cantata di Rosa Balistreri, “la prima in Italia ad avere il coraggio di cantare che “La mafia e li parrini / si detteru la manu” (siamo nel 1973); la parola può anche farsi fantasma essa stessa, come in Carmelo Bene, “il fondatore di una grammatica dell’assenza in cui la voce – la phoné – si fa puro suono significante. La phoné, sì: la voce dei suoni che svolge e prepara tutte le grammatiche da mettere in scena”. Troppo vuoto, troppa assenza, trasparenza: anche questo è Acchiappafantasmi, dove, non a caso, il tema della morte è onnipresente, si annida in ogni angolo, i fantasmi si acchiappano servono a tenere a distanza la caducità, la perdita, la fine, servono anche, forse, a familiarizzarci.

Ma a questa voce che è solo voce, a questa grammatica dell’assenza, fa da contraltare la folla di spettri, il troppo pieno, l’abbondanza, di nuovo, del morto che parla. Ed ecco, quindi, la parola può farsi anche immagine: con Tiziano Sclavi, Ettore Scola, Federico Fellini (e il suo “diventare aggettivo”). O con la costante riscrittura, di Ulisse, per esempio, mettendo insieme Omero, Dante e Joyce; o del film Brigadoon di Vincente Minnelli; o la storia del racconto di un ritaglio di carta contente un taglio da Un’estate pericolosa di Hemingway; e la presenza ossessiva del già scritto e del già visto: la cultura, soprattutto cinematografica, di Meacci viene a dare consistenza a queste forme evanescenti, e ri-battezzare i morti, a parlare dei sogni (come da titolo di un racconto teatrale sul cinema contenuto nel volume).

Acchiappafantasmi, allora, è forse due libri insieme: il libro del vuoto, dell’assenza, e il libro dell’abbondanza, dell’affollamento, del sogno. Ma Acchiappafantasmi, forse, doveva essere due libri: un dittico in cui i meravigliosi ritratti di Chi fa la lingua avrebbero parlato a distanza con i racconti e le drammaturgie, senza doverne condividere per forza lo stesso spazio. Perché è vero che i fantasmi infestano, ma a volte sta a noi fare un po’ di ordine.

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Fotografia header: Giordano Meacci, foto di Paolo De Chellis

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