Maître à penser nella Chiesa del Concilio, autore prolifico, Joseph Ratzinger (Marktl, 16 aprile 1927 – Città del Vaticano, 31 dicembre 2022) avrebbe voluto fare il professore e teologo, ma gran parte della sua carriera si è svolta tutta in Vaticano, fino a diventare Papa e poi lasciare il pontificato nel 2013 in un gesto di portata epocale. Una decisione che la storia, per certi versi, non ha ancora compreso, né tantomeno metabolizzato…

Panzerkardinal, guardiano dell’ortodossia, Pontefice rivoluzionario. Con le definizioni su Joseph Ratzinger ci si è davvero sbizzarriti in questi anni. 

Professore, teologo tra i maggiori del Novecento, cardinale, collaboratore fidato nel lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II, fino a diventare Papa il 19 aprile 2005 con il nome di Benedetto XVI, prendendo il testimone da Karol Wojtyla in un frangente in cui la Chiesa sembrava smarrita. 

Nato a Marktl am Inn, in Baviera, il 16 aprile 1927, del carattere bavarese, assai diverso da quello prussiano, aveva preso un certo savoir-vivre, l’umorismo raffinato, la passione nello stare insieme agli amici come faceva, da cardinale, nei locali di Borgo Pio a Roma, quando usciva spesso in compagnia dei suoi connazionali a bere una birra. 

Il padre, commissario della gendarmeria, proveniva da un’antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera. La madre era una donna affettuosa. Il fratello, Georg, che si farà prete e diventerà direttore dei celeberrimi Piccoli Cantori di Ratisbona, una sorella, Maria, a lui molto cara. 

La Baviera è importante nelle radici di Joseph Ratzinger. Significa una religiosità popolare viva e piena di colore, di musica, di architetture barocche, di pellegrinaggi fra i campi, di preghiera intensa, di edicole di santi ai crocevia e di madonne misericordiose come nel Sud. 

Se Karol Wojtyla da giovane sognava di fare l’eremita, Joseph Ratzinger avrebbe preferito fare per sempre il professore e il teologo. Libero docente di teologia all’età di trentadue anni, insegna Dogmatica e Teologia a Frisinga, passando poi a Bonn, Muenster e Tubinga.

Sacerdote dal 29 giugno ’51, studi filosofia e teologia all’università di Monaco. La strada verso Roma gli si apre quando partecipa al Concilio Vaticano II come consulente teologico dell’Arcivescovo di Colonia, Frings. 

Il 24 marzo ’77 Paolo VI lo nomina arcivescovo di München und Freising. Il 28 maggio successivo riceve la consacrazione episcopale. È lo stesso Paolo VI a crearlo cardinale nel Concistoro del 27 giugno ’77. 

Dopo quattro anni, il 25 novembre ’81 diventa Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, scelto da Giovanni Paolo II, che lo vorrà al suo fianco sino alla fine, respingendo anche le dimissioni che di tanto in tanto, per raggiunti limiti di età, Ratzinger gli presentava, volendo ritirarsi a vita privata, agli amati studi, al pianoforte (Mozart era il suo musicista preferito) e ad accudire i gatti, compagni discreti di tutta la sua esistenza, anche nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano dove si era ritirato dopo la rinuncia al pontificato.

Negli anni “tedeschi” Hans Küng è suo maestro, Karl Rahner suo compagno di impegno e visione. I due appartengono alla prima linea della teologia critica e fanno parte di quel drappello internazionale di teologi, che forniscono all’episcopato tedesco, francese, belga e olandese – che in Italia trova un’eco negli arcivescovi Montini, a Milano, e Lercaro, a Bologna – le munizioni intellettuali e dottrinali per rovesciare l’impostazione conservatrice dei documenti conciliari preparatori, redatti dalla Curia vaticana, e spingere il concilio nel mare aperto delle riforme. Sono gli anni in cui rimprovererà alla gerarchia ecclesiastica di agire con “le redini tirate e con troppe leggi”. 

Qualche anno dopo Ratzinger frenerà. Spaventato dal riformismo radicale dei teologi innovatori, e anche sotto lo shock dell’estremismo studentesco cristiano del ‘68. Certe derive del Concilio non gli piacciono, così fonda insieme al famoso teologo de Lubac, e con l’appoggio di don Giussani, il leader di Comunione e liberazione, la rivista Communio, contraltare alla rivista dei riformatori Concilium.

Benedetto XVI. Una vita

Ratzinger sostiene le sue tesi, ma è uomo aperto al dibattito e ama dialogare. Per questo ha amato sempre fare il professore universitario più che il cardinale di Curia e di certo, per temperamento, non ambiva a fare il Papa. Lo si è visto quando, sul Soglio di Pietro, scrisse, tra il 2007 e il 2011, la trilogia dedicata a Gesù di Nazareth firmandosi come Joseph Ratzinger e non come Benedetto XVI e precisando questo: “Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del ‘volto del Signore’”.

La sua volontà di instaurare un dialogo tra fede e ragione suscita rispetto e attenzione anche tra gli intellettuali laici. Il suo approccio alla crisi del cristianesimo nella società contemporanea e la riflessione sulla marginalizzazione della fede nella società secolarizzata non è mai priva di spunti (anche autocritici).

Una biografia complessa e ricca di sfaccettature, resa con grande vividezza da Peter Seewald, che ha accompagnato Josef Ratzinger per oltre venticinque anni come giornalista, scrittore, confidente e pubblicata in Italia da Garzanti nel 2020.

Con Kung, suo antico maestro, si scontra vivacemente e il culmine arriva nel 2000, quando il cardinale firma il documento Dominus Jesus in cui sostiene che “solo nella Chiesa cattolica c’è la salvezza eterna”, suscitando l’ira degli evangelici, Küng dirà: “La dichiarazione dell’ex Sant’Uffizio è un miscuglio di arretratezza medievale e mania di grandezza”.

Quando, anche dall’interno della Chiesa, lo accusavano di dire no a tutto, replicava: Io non sono il Grande Inquisitore né mi sento una Cassandro”.

Non è accomodante, certo, e lo dimostra nel 2005, agli sgoccioli del pontificato di Wojtyla, quando definisce la Chiesa “una barca che fa acqua” con il drammatico passaggio del commento all’ultima Via Crucis del Venerdì Santo che Giovanni Paolo II ormai morente gli affida: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, quanta superbia, quanto autosufficienza! E proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui”. Parole durissime, drammatiche che scuotono la Chiesa e il mondo.

Il Ratzinger che pensavamo di conoscere, fermo, deciso, quasi granitico, “finisce”, in un certo senso, l’11 febbraio 2013 quando, in un annuncio che prende di contropiede il mondo intero, decide di lasciare il pontificato. Lo fa in latino, e tra le motivazioni adduce l’aumentare dell’età e l’impossibilità a fare fronte alla gravosità degli impegni richiesti: “Per questo”, afferma, “ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”. 

Uno shock che scatena una ridda di ipotesi, retroscena, proteste anche pubbliche e clamorose come quella dell’ex segretario personale di Wojtyla, Stanislaw Dziwisz, che da Cracovia commenta: “Non si scende dalla croce”.

Nello smarrimento generale, dopo aver scelto per sé il titolo di “Papa emerito”, nel pomeriggio del 28 febbraio 2013, in una scena da film felliniano, Benedetto XVI lascia in elicottero il Palazzo Apostolico raggiungendo la residenza pontificia di Castel Gandolfo, per poi trasferirsi definitivamente, il 2 maggio successivo, presso il monastero Mater Ecclesiae che si trova all’interno dei Giardini Vaticani, dove inizia la coabitazione con il Papa regnante, Francesco.

“Il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ – non c’è più un ritornare nel privato”, dice Benedetto XVI nell’ultima udienza generale, “la mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro”.

Nel 2020 diventa il più longevo, d’età, tra i Papi della Chiesa, battendo il record di Leone XIII che ha vissuto 93 anni, 4 mesi e 18 giorni. 

Una vita lunga e un’avventura umana e intellettuale ricchissima. Una decisione, la rinuncia al pontificato, che la storia per certi versi non ha ancora compreso né tantomeno metabolizzato.

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Fotografia header: Benedetto XVI - Photo by Alessandra Benedetti/Corbis via Getty Images - Dicemebre 2022

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