Esiste una folta tradizione letteraria di opere che ricorrono al topos della casa stregata, ed è proprio in questa che si inserisce Simona Vinci (vincitrice del Premio Campiello 2016) con il suo nuovo romanzo “L’altra casa”, un horror psicologico che richiama alla mente le grandi narrazioni gotiche, da Edgar Allan Poe a Henry James, passando per Lovecraft, Shirley Jackson e Stephen King. Un libro conturbante che, come molte uscite dell’ultimo periodo (tra cui “Questo giorno che incombe” di Antonella Lattanzi), ci interroga sui i luoghi che abitiamo e su come essi siano espressione di quello che abbiamo dentro, dei nostri desideri e dei nostri incubi più profondi

Le case proteggono e vanno protette. È così che funziona. Se si infrange questo patto, la casa si ribella, si arrabbia. Non trova pace e si aggrappa alla presenza di chiunque pur di non restare sola.

C’è un cuore segreto all’interno dei luoghi che amiamo, fatto della nostra carne e della nostra stessa essenza. Così Villa Giacomelli, un antico e maestoso complesso del Settecento alle porte di Bologna, sembra essere stata costruita proprio a immagine e somiglianza delle persone che l’hanno abitata un tempo: come l’incantevole Giuseppina Pasqua, una celebre cantante lirica, amatissima dal compositore Giuseppe Verdi.

Di lei, la casa ha conservato la raffinatezza, l’eleganza, la voce melodiosa che pare risuonare tra le stanze colorate dell’edificio. Quando si è lì, sembra davvero di sentire qualcuno cantare, lamentarsi, gridare.

Maura se ne accorge subito, appena mette piede nel giardino della villa. Ma non ha paura, anzi. È attratta da quell’atmosfera fosca e malinconica, sente in qualche modo di farne parte. Dopotutto, anche se volesse, non potrebbe scappare: deve restare per partecipare all’evento culturale che Fred – suo agente e amante – ha organizzato per lei, per farla tornare a esibirsi dopo aver subito un intervento alla tiroide che, forse, ha compromesso per sempre le sue corde vocali.

Ma non è sola. Accanto a lei, c’è Ursula, una pianista che probabilmente è ancora più misteriosa, austera e respingente della villa. Tagliante, aggressiva, glaciale. Dovrebbe prendersi cura di Maura, aiutarla a rimettersi in sesto, ma anche lei ha le sue ferite da guarire, e quella casa sembra godere nel farle riaffiorare, insieme ai ricordi dolorosi che ha cercato di sopprimere.

“Le case non mangiano le persone. Le case non ti ingoiano. Sono gli esseri umani a fare i casini, non i mattoni o le travi”.

l'altra casa simona vinci

Esiste una folta tradizione letteraria di opere che ricorrono al topos della casa stregata, ed è proprio in questa che si inserisce Simona Vinci con il suo nuovo romanzo L’altra casa (Einaudi Stile Libero), un horror psicologico che richiama alla mente le grandi narrazioni gotiche, da Edgar Allan Poe a Henry James, passando per Lovecraft, Shirley Jackson e Stephen King.

Mescolando gli elementi fantastici più classici a un profondo scavo dei personaggi, l’autrice (che ha vinto il Premio Campiello 2016), costruisce una prosa ammaliante, verbosa e ricca, eppure altamente ponderata e precisa, che procede con il passo solenne di una tragedia, facendo volteggiare il lettore tra le pagine come in uno di quei balli raffigurati nei dipinti vittoriani.

La casa che racconta Vinci – vera protagonista di un’opera in cui si muovono tante figure diverse, una più conturbante dell’altra – ha un’anima vegetale e un cuore che batte, sotto il pavimento. Respira e si fa sentire con il suo cigolio, lo scricchiolio, il tintinnio, il ticchettio.

La casa odora di naftalina e fumo. Ci sono carcasse di insetti nascoste dietro ai mobili e polvere che fluttua nelle stanze vuote.

C’è del sangue di piccione schizzato sulle mattonelle dell’atrio e un lampadario di bronzo decorato a foglie che pende dal soffitto. Ci sono biscotti a forma di cervello da inzuppare nel tè caldo. Ci sono i segreti del passato, perché la casa nasconde e assorbe. Inganna e rassicura. È insieme minaccia e rifugio, è un arcano che non può essere rivelato, ma che può aiutare a comprendere quello che ci portiamo dentro.

“Siamo stati tutti abitanti di una casa, quante ne abbiamo abbandonate, tradite, pensò Maura passando in rassegna i suoi indirizzi, le strade, le facciate, gli interni, e non lo sappiamo che le case ci conservano nella loro memoria e non vogliono lasciarci andare. Prima o poi ci riprendono, pensò ancora, ci costringono a tornare”.

Del resto di case, negli ultimi tempi, ne abbiamo già parlato. È stata una tendenza che ha animato la produzione editoriale italiana (e non solo), quella di mettere le dimore al centro delle narrazioni, di qualsiasi genere. Forse come effetto del lockdown, come necessità di esprimere e ridefinire i rapporti con i luoghi in cui viviamo.

copertina del thriller questo giorno che incombe di antonella lattanzi

Tra le tante uscite, quella di Antonella Lattanzi, Questo giorno che incombe (HarperCollins Italia), è quella che forse più si avvicina a Vinci, non tanto per l’ambientazione, per la trama o per il profilo dei personaggi, quanto piuttosto per la funzione stessa della casa che, in entrambi i romanzi, si fa persona, essere vivo e pulsante che prende parte alle vicende della storia e ne determina il corso.

Si tratta di due case profondamente differenti – assolata e perfetta quella di Lattanzi, decadente e cupa quella di Vinci – che però si fanno portavoce dei desideri e degli incubi di chi le abita, diventando esse stesse oggetto di desiderio e fonte di incubi. Presenze impossibili  da collocare – ma alla fine sono buone o cattive? – e da comprendere fino in fondo.

Sembrano prigioni e nidi al tempo stesso, che siano immerse in un condominio di un quartiere borghese, o che siano sperdute in una campagna fitta e oscura.

La casa è reclusione e libertà. È forse questa la contraddizione che più sconvolge e turba nel romanzo di Simona Vinci, facendo vibrare delle corde che, almeno in questo periodo, risultano particolarmente sensibili, e interrogandoci sul legame che instauriamo con le nostre abitazioni, dalle quali vorremmo scappare ed essere inghiottiti.

Ma, almeno sulla pagina scritta, il dubbio non si pone: si vorrebbe restare sempre lì. Infatti, quando arriva la parola fine, lasciare il romanzo diventa davvero un atto di distacco.

Si torna indietro, si riprende a girare tra i capitoli come si girerebbe da una stanza all’altra della villa, nel tentativo di svelare un mistero incomprensibile che, anche se sembra surreale e lontano, come tutto quello che ci fa paura, ci appartiene più di quanto immaginiamo.

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