Amante del Giappone e dei cappelli stravaganti, Amélie Nothomb è una prolifica e pluripremiata scrittrice belga che veste sempre di nero – Uno sguardo alla sua vita e ai tratti peculiari della sua produzione, che mescola la narrativa ai riferimenti autobiografici, a cominciare dall’esordio, “Igiene dell’assassino” e fino ad arrivare alle sue opere più recenti, come “Primo sangue”, “Il libro delle sorelle”, “Psicopompo” e “L’impossibile ritorno”…

Vestita rigorosamente di nero e caratterizzata dai vistosi cappelli che indossa in ogni occasione, Amélie Nothomb è autrice di numerosi romanzi e racconti, tra cui Metafisica dei tubi (Voland, traduzione di Patrizia Galeone), Dizionario dei nomi propri (Voland, traduzione di Monica Capuani) e Acido solforico (Voland, traduzione di Monica Capuani).

Uno sguardo alla sua biografia, alla sua poetica e alle opere che l’hanno resa una delle scrittrici di origine belga più popolari e prolifiche degli ultimi decenni…

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Chi è Amélie Nothomb?

Figlia di Danièle Scheyven e di Patrick Nothomb, diplomatico e appartenente a un’importante famiglia belga, Amélie Nothomb (nome d’arte di Fabienne Claire Nothomb) è nata nel 1967 a Kobe, in Giappone, una terra che ha sempre amato profondamente e di cui conosce alla perfezione la lingua.

Fin da piccola ha viaggiato in diversi Paesi per seguire gli spostamenti di lavoro del padre: prima la Cina, poi New York e infine il Bangladesh. Quando, poi, la famiglia si trasferisce in Europa, a Bruxelles, Amélie ha 17 anni e si sente come un pesce fuor d’acqua.

Proprio in quel periodo prende l’abitudine di scrivere con regolarità: quattro ore al giorno tutti i giorni, cominciando spesso prima dell’alba e aiutandosi con una tazza di tè nero forte, che le fa compagnia mentre riempie interi quaderni rigorosamente a mano.

Le prime opere letterarie

Copertina del libro Igiene dell'assassino di Amélie Nothomb

Da questo costante esercizio, nel 1992, nasce il suo primo romanzo, Igiene dell’assassino (Voland, traduzione di Bruno Biancamaria), la vicenda (naturalmente inventata) del Premio Nobel per la Letteratura Prétextat Tach, feroce misantropo con pochi mesi di vita che, mentre la stampa di tutto il mondo lo implora di rilasciare qualche ultima dichiarazione, si concede solo a cinque giornalisti con l’intenzione di raggirarli.

O meglio: prende effettivamente in giro i primi quattro, trasformando l’intervista in un gioco sadico, mentre la quinta, una donna, riuscirà a tenergli testa, componendo un ritratto dello scrittore completamente inaspettato.

Copertina del libro Stupore e tremori di Amélie Nothomb

Fin dal suo esordio a venticinque anni, il successo è immediato. Amélie Nothomb va allora avanti a scrivere con costanza, pubblicando un romanzo ogni anno e dando più di rado alle stampe anche delle storie brevi, nonché un’opera teatrale intitolata Bruciare i libri (Robin Edizioni, traduzione di A. Grilli).

Nel 1999 viene particolarmente apprezzato Stupore e tremori (Voland, traduzione di Bruno Biancamaria), in cui l’autrice racconta della disastrosa esperienza fatta in Giappone quando a ventuno anni vi si era trasferita per lavorare come interprete in un’azienda che, alla fine, l’aveva relegata a guardiana dei servizi.

Nuovamente in Giappone è ambientato il romanzo Né di Eva né di Adamo (Voland, traduzione di M. Capuani), che parla del legame appassionato tra la scrittrice e un giovane giapponese, bello e ricco, di nome Rinri: il libro descrive questo amore bizzarro con toni umoristici, soffermandosi spesso a tratteggiare la relazione con l’unico e vero amore incontrastato di Amélie Nothomb: il Giappone.

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Amélie Nothomb, tra la narrativa e l’autofiction

Ancora più personale è il romanzo Biografia della fame (Voland, traduzione di M. Capuani), una narrazione coinvolgente degli anni che Amélie Nothomb ha trascorso viaggiando da un paese all’altro al seguito del padre.

Perennemente sradicata, tra episodi comici e altri commoventi, dal rapporto simbiotico con la sorella fino all’arrivo in Bangladesh e all’anoressia, che l’ha portata a cibarsi soltanto di libri: un’autobiografia ironica e molto ricca di eventi per una così giovane protagonista, sempre affamata di nuove esperienze.

Copertina del libro Sabotaggio d'amore di Amélie Nothomb

Ancora di ispirazione autobiografica è Sabotaggio d’amore (Voland, traduzione di A. Grilli), storia ambientata nel ghetto di San Li Tun a Pechino, nel quale, tra i figli dei diplomatici stranieri che vivono nel quartiere, scoppia un tremendo “conflitto mondiale“.

Con la perfidia ignara delle conseguenze che possiedono soltanto i bambini, i personaggi si inseguono e si catturano, si scontrano e si torturano sotto gli occhi disincantati della protagonista, che, nel frattempo, vive il suo primo e incomprensibile amore.

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Difficile, però, per queste come per tante altre delle sue opere, stabilire dove finisca la narrazione fittizia e dove inizi la verità, dal momento che una delle cifre stilistiche di Amélie Nothomb consiste nel proporci situazioni spesso estreme, o comunque al limite dell’assurdo, circondate da un sottile velo di ironia e che finiscono mettere in dubbio la nostra idea di realtà, per turbarci, provocarci e spingerci a riflettere.

È quanto succede ne La nostalgia felice (Voland, traduzione di Monica Capuani) e ancora di più in Pétronille (Voland, traduzione di Monica Capuani), in cui Amélie Nothomb diventa uno dei personaggi della storia, mentre negli ultimi anni è capitato con titoli quali Sete (Voland, traduzione di Isabella Mattazzi), Primo sangue (Voland, traduzione di Federica Di Lella) e Il libro delle sorelle (Voland, traduzione di Federica Di Lella), pubblicati in Italia tra il 2019 e il 2022.

Nel 2024 è stata poi la volta di Psicopompo (Voland, traduzione di Federica Di Lella), ritenuto fra i testi più intimi della pluripremiata scrittrice, già vincitrice nel 1999 del Grand Prix du roman de l’Académie française, e che ha poi ricevuto il Premio Renaudot nel 2021 e il Premio Strega Europeo nel 2022.

Amélie Nothomb e Mikhail Shishkin - foto di Paolo Properzi

Amélie Nothomb e Mikhail Shishkin (foto di Paolo Properzi)

Qui Amélie Nothomb racconta del suo amore per gli uccelli e per il loro volo, della sua infanzia errabonda, della violenza subita appena dodicenne sulla rinomata spiaggia di Cox’s Bazar, in Bangladesh, della difficoltà di elaborare il trauma e del potere salvifico della scrittura, nonché della severa disciplina con cui vi si dedica ancora oggi.

Il nuovo romanzo di Amélie Nothomb

Copertina del libro L'impossibile ritorno di Amélie Nothomb

L’ultimo suo libro arrivato sugli scaffali si intitola invece L’impossibile ritorno (Voland, traduzione di Federica Di Lella): un’avventura “à la Thelma & Louise”, che per Amélie Nothomb diventa un’occasione non solo per elaborare il lutto del padre, ma anche per capire la sé stessa di oggi.

In queste pagine, infatti, l’autrice torna nel Giappone che le è tanto caro, stavolta in compagnia dell’amica fotografa Pep Beni, e in quei dieci giorni di viaggio sperimenta il kenshō (una sorta di estasi contemplativa), abbandonando lo champagne per i whisky giapponesi e immergendosi con una nuova prospettiva nei luoghi della gioventù.

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“Nessun continente se ne andrebbe volontariamente alla deriva”, “Qualsiasi partenza è un’aberrazione“, ci tiene a sottolineare nel primo capitolo, senza nasconderci l’approccio amaro con cui intende parlare dell’argomento.

Eppure, man mano che passano i giorni e che i capitoli scorrono l’uno dopo l’altro, in un mosaico di ricordi e di sinestesie, di limiti da superare e di parole con cui tornare a familiarizzare, la sua percezione si fa più conciliante, distaccata e obiettiva.

Certo, tornare a vedere ogni cosa con i suoi occhi di bambina, e percepire la sua traversata come un ritorno, non è un’impresa semplice (a dispetto dell’eterno ritorno di cui parlava, dal canto suo, Friedrich Nietzsche), ma il Giappone di oggi è comunque un Paese che ha tanto da dirle e da darle, e che Amélie Nothomb è pronta a raccontare con acume e generosità

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Fotografia header: Amélie Nothomb (Getty Images 20-02-2025)

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