Amélie Nothomb torna in libreria con “Gli aerostati”, un romanzo che, suggerendo una riflessione sulle nuove generazioni e sull’uso di internet, fino ad arrivare ai pericoli delle relazioni fra maestro e allievo e al rapporto con la lettura, trascende questi temi e va nella direzione di un Caos di greca memoria, ricordandoci in maniera tangenziale fino a che punto, nella storia della letteratura occidentale, siamo tutti usciti dal “cappotto” di Omero – L’approfondimento

L’anno scorso, con Sete (Voland, traduzione di Isabella Mattazzi), Amélie Nothomb si era cimentata in una personale versione della Passione di Cristo, in cui il Figlio di Dio rifletteva come voce narrante sul suo destino. Quest’anno torna in libreria, come di consueto nel mese di febbraio, con Gli aerostati (Voland, traduzione di Federica Di Lella), un avvincente romanzo di 128 pagine che invece ci ricorda in maniera tangenziale fino a che punto, nella storia della letteratura occidentale, siamo tutti usciti dal “cappotto” di Omero.

Ma andiamo con ordine. La ventinovesima pubblicazione dell’acclamata scrittrice belga, come sempre edita oltralpe da Albin Michel, è ambientata a Bruxelles – caratteristica piuttosto rara, nelle sue storie – e ha per protagonista Ange d’Aulnoy, una solitaria studentessa di filologia di soli 19 anni e dal carattere spigoloso.

gli aerostati nothomb

Quando su un giornale trova un annuncio per dare ripetizioni, Ange decide di provare a mettere da parte qualche soldo in più e viene assunta dal sinistro Grégoire Roussaire per aiutare con lo studio suo figlio Pie, un sedicenne apparentemente dislessico che ha un debole per la matematica, per le armi e per gli aerostati, e che a causa dei suoi voti rischia di non superare gli esami di fine anno.

Nel suo avvicinarsi al mito da lontano, Gli aerostati fa tornare in mente Achille piè veloce (Feltrinelli, 2003) di Stefano Benni, in cui un giovane scrittore in crisi creativa, Ulisse, viene contattato da uno sconosciuto, che poi scoprirà essere un ragazzo malato di nome Achille.

I nomi in questo secondo caso sono più espliciti, come anche ne L’appello (Mondadori, 2020) di Alessandro D’Avenia, il cui protagonista è un professore di liceo cieco e di nome Omero, eppure la dinamica è analoga: abbracciare l’èpos nei suoi archetipi anziché nei suoi luoghi, alla stregua di quanto era successo nel 2019 con Le nuove eroidi (HarperCollins Italia), antologia in cui Antonella Lattanzi, Valeria Parrella, Ilaria Bernardini, Veronica Raimo, Chiara Valerio, Caterina Bonvicini, Michela Murgia e Teresa Ciabatti avevano dato vita a dei racconti ambientati quasi sempre ai giorni nostri per riportare in auge miti della classicità.

Il testo di Nothomb, però, compie un ulteriore passo in avanti e diventa addirittura meta-omerico: quando intuisce che il suo studente non ha disturbi specifici dell’apprendimento, infatti, Ange prova a risvegliare in lui un piacere della lettura forse mai esplorato e gli assegna da leggere proprio l’Iliade. Il risultato è sorprendente (Pie lo divora in una notte, discutendone poi da una prospettiva insolita e brillante) e permette al lettore di ragionare sulle vicende e sulle personalità omeriche dallo spioncino della modernità, un po’ com’era successo di recente con il saggio Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno (Einaudi Stile Libero) di Matteo Nucci.

Nella narrativa stessa, considerando anche solo gli ultimi vent’anni, esempi simili e ben più spinti non sono mancati: si vedano Omero, Iliade (Feltrinelli, 2004) di Alessandro Baricco o una mordace Elena di Sparta che si era raccontata in prima persona nell’omonimo esordio di Loreta Minutilli (Baldini + Castoldi, 2019), per non parlare dell’operazione di Maria Grazia Ciani ne La morte di Penelope (Marsilio, 2019) e di quella di Madeline Miller ne La canzone di Achille (Sonzogno, 2013, traduzione di Matteo Curtoni e di Maura Parolini) e in Circe (Sonzogno, 2019, traduzione di Marinella Magrì), oltre a Margaret Atwood, che ha scritto Il canto di Penelope (Ponte alle Grazie, traduzione di Margherita Crepax), e alla recentissima Odissea di Nikos Kazantzakis, tradotta da Nicola Crocetti per la sua casa editrice.

A ben vedere, sembra che il fascino dell’epica classica si ripresenti nell’immaginario di ogni epoca con un’influenza più o meno diretta, orientando alcune direzioni narrative quasi per gemmazione. Esattamente come aveva dichiarato nel XIX secolo Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881), rilevando che tutta la letteratura del cosiddetto realismo socialista russo era uscita dal Cappotto di Gogol’ (1809-1852), ispirandosi cioè al celebre racconto con protagonista l’impiegatuccio Akakij Akakievič Bašmačkin. Nel caso de Gli aerostati, il lembo del cappotto si direbbe di una stoffa à la Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse (1877-1962), se consideriamo che Pie si ritrova a sviluppare un’attrazione conturbante per Ange e a detestare sempre di più, per contrasto, i suoi genitori.

Nella sua famiglia disfunzionale si insinua così l’eco di certe teorie freudiane, e insieme a loro guarda caso un modello edipico di greca memoria, mentre il ragazzo inizia una corsa affannosa e quasi idealizzata verso l’autoaffermazione. Prendendo spunto da questo sviluppo dell’intreccio – oltretutto intuibile per un lettore avvezzo agli ingranaggi nothombiani -, sarebbe facile sostenere con voce stentorea che lo zoccolo duro de Gli aerostati consisterebbe in un’analisi delle nuove generazioni, passando per una riflessione sull’uso di internet fino ad arrivare ai pericoli delle relazioni fra maestro e allievo e al rapporto con la lettura.

Ebbene: in medio, avrebbero detto i filosofi della Scolastica medievale, stat virtus. Trattandosi di Amélie Nothomb, è importante rammentare che, in realtà, nei suoi libri si riesce a trovare quasi solo ciò che non si conosce, raramente ciò che si ha sempre sotto il proprio naso: in Nothomb stat inscitia. Ecco perché, avventurandosi lungo questo sentiero interpretativo, si finirebbe per scoprirlo sdrucciolevole e per inseguire dei fili d’oro che possibilmente restano invisibili agli occhi di un lettore trentenne o di uno quindicenne.

Risulta allora più interessante mettere a fuoco l’abbrutimento dei genitori di Pie, testimonianza di un imborghesimento della generazione post-settantottina ingabbiata in un sistema capitalistico di matrice finanziaria, che non lascia spazio né alla sapienza dell’affetto né alla pazienza della profondità. E notare che, al di là dei prevedibili sviluppi erotici del rapporto con la sua insegnante, è soprattutto il ragazzo a cambiare Ange, a renderla meno “angelo” (sostantivo che in francese si legge e si scrive come il suo nome proprio) e più “donna” di carne.

Questa indagine è da preferire anche a una disamina di alcuni buchi narrativi dell’opera, d’altronde quasi inevitabili quando si concentra un materiale così corposo in uno spazio ridotto, abitato da poche ma deflagranti sottotrame. Né, a dire il vero, c’è molto da meravigliarsene, se consideriamo che lo stesso èpos affonda le sue radici nel Caos, inteso sia in senso mitologico sia in senso più letterale.

Per di più, chi la conosce lo sa: l’obiettivo di Nothomb non è mai stato la quadratura del cerchio, anzi. Dal 1992 a questa parte, il suo intento è rimasto per lo più quello di rompere le righe, di rovesciare grottescamente aspettative e situazioni per far filtrare la luce da una crepa coheniana, con una cifra distintiva che richiama certe disturbanti atmosfere kafkiane, rendendole implosive come nelle storie di Yukio Mishima (1925-1970).

Così, Gli aerostati risulta un libro spaccato in due fin dall’inizio, raccontato da una prospettiva impossibile e macabra – la stessa che a fine lettura lascia affamati, perplessi, perfino spaventati. La vita, sembra ricordarci l’autrice, ci porta spesso sulla bocca di un baratro dal quale nessuno ci spiega come allontanarci: a volte indietreggiamo, e scopriamo solo dopo di esserci salvati. Altre volte inciampiamo, o decidiamo di trascinare giù con noi le persone a noi più care. In altri casi ancora, buttiamo nel fondo qualcuno con cui non riusciamo a costruire un percorso, in un bilico surreale tra crudeltà e delicatezza (“Amare un romanzo non significa necessariamente amarne i personaggi”, ci avverte al riguardo la stessa Ange).

L’ultima prova letteraria di Nothomb, quindi, non è un romanzo sull’adolescenza (nominata a volte con la stessa rigidità che si riserverebbe a una categoria kantiana), quanto piuttosto sulle impasse comunicative, sulla solitudine del pensiero, sull’architettura della fiducia. È una storia che alterna morbosità e vuoti, focalizzandosi sui tanti modi in cui, a età diverse, li saturiamo con ossessioni diverse, diventando una cartina al tornasole di tutti gli aerostati che non raggiungono l’atmosfera, perché non riusciamo a renderli più leggeri dell’aria.

Una tragedia dionisiaca che le sue tre unità aristoteliche trasformano pagina dopo pagina in una febbrile mazurka.

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