“Mi chiedo da molti anni se esista un limite alla giovinezza, se si possa stabilire fissando un’età – il confine assoluto di un numero – o se in fondo tutto sia molto più fluido e opinabile”. Su ilLibraio.it la riflessione di Gaia Manzini, che torna in libreria con “Nessuna parola dice di noi” (e che cita autrici e autori di ieri e di oggi, come Louisa May Alcott, Rachel Cusk, Sheila Heti, Edna O’Brien, Sally Rooney, Lev Tolstoj e Virginia Woolf…)

Quando si incontra per la prima volta Nataša in Guerra e pace, si prova l’effervescenza di una mattina di primavera: è come guardare la vitalità di una corolla di fiori mossa dal vento. Il principe Andréj, il giorno dopo un ballo in società, decide di fare visita a casa Rostòv.

Nataša è la prima a venirgli incontro: si sono visti al ricevimento, lui ne ha apprezzato la grazia, ma qui tra le mura domestiche gli sembra ancora più luminosa. Dopo pranzo, Nataša si siede al clavicembalo e canta: è la sua magia, il suo fascino misto di malizia e innocenza. Il principe, mentre discorre con le altre signore, non può che ascoltare quel canto, e inaspettatamente si commuove. Si commuove per un sentimento inspiegabile, mai provato prima, fatto di felicità e tristezza insieme; c’è il senso di immensità che gli infonde quella voce e, insieme, la coscienza della propria finitezza umana.

È la nostalgia che ci investe davanti alla bellezza della vita e della giovinezza, quando ci rendiamo conto che entrambe non potranno durare per sempre. Capitolo dopo capitolo, di quella ragazza e della sua vibrante vitalità rimarrà ben poco: verrà sostituita dalla madre forte e serena, innamorata della sua famiglia.

Avere figli segna sempre la fine di qualcosa. È l’inizio di un’altra versione di noi stesse, spesso diverse da Nataša. Avere figli ci consegna a quella dimensione ambivalente e conflittuale che è la maternità oggi, come racconta Rachel Cusk nel suo Il lavoro di una vita. Sul diventare madri. E come ci ha raccontato anche Sheila Heti nel suo bellissimo Maternità, commovente anatomia di un dubbio per una donna che vuole esprimere il proprio amore per il compagno dandogli un figlio, ma nello stesso tempo – da scrittrice – desidera il successo sociale, desidera rimanere fedele ai propri sogni e alle proprie aspettative.

La maternità è uno dei tanti modi in cui si passa con sconcertante evidenza all’età adulta. Mi chiedo da molti anni se esista un limite alla giovinezza, se si possa stabilire fissando un’età – il confine assoluto di un numero – o se in fondo tutto sia molto più fluido e opinabile.

Per Ada, la protagonista del mio romanzo, la maternità non ha segnato la fine ma la paralisi della sua giovinezza. Quella giovinezza perduta ritorna inaspettatamente con il lavoro, con un’amicizia che sembra amore; che lo è, anzi: perché se non esistono limiti netti all’età della vita, non ci sono neanche perimetri che imprigionano i sentimenti e le emozioni.

Per molti anni – come Ada – ho fatto la copywriter in un’agenzia di pubblicità, lavorando ogni giorno con le parole, imparando a dire sempre le stesse cose ma ogni volta in modo diverso. Che a ben guardare è un po’ la metafora di quello che ci è richiesto a livello personale: rimanere sempre uguali, giovani, in jeans e scarpe da ginnastica; sempre aggiornati sulle novità musicali e artistiche; sempre pronti a sperimentare – ma soltanto in superficie. Ada è una ventenne, io di anni ne avevo trenta, ma a quel tempo non c’è stata una volta che mi sia fermata a pensare a cosa sarebbe stato di me. Come se l’idea di invecchiare non potesse sfiorarmi, come se l’inevitabile potesse arrivare solo quando l’avrei deciso io.

La protagonista del racconto La bambola di Edna O’Brien si rende conto solo dopo molti anni di quanto il mondo della sua giovinezza sia ormai lontano. Un giorno torna nella sua cittadina d’origine per la morte della vecchia maestra: proprio quella che, molto tempo prima, le aveva sottratto crudelmente la sua bambola preferita e non gliela aveva mai restituita. La bambola, simbolo dell’infanzia. Ma in fondo ora nulla ha più importanza, nulla la tocca veramente: da anni ha scelto un’altra sé stessa, un lavoro creativo, una vita cosmopolita. La bambola è alle sue spalle, davanti a lei c’è solo la speranza di imparare a dare e a darsi al mondo, scegliendo sempre nuove strade.

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Ecco, il punto mi sembra proprio questo: non sono gli anni a contare, non necessariamente la maternità, ma le scelte. L’età adulta di Louisa May Alcott era cominciata abbastanza precocemente: le condizioni di indigenza della famiglia l’avevano portata a lavorare fin da ragazza come domestica. Ma poi, compiuti ventiquattro anni, le succede qualcosa di decisivo: la consapevolezza del proprio talento – la stessa che ha Jo, il personaggio che tanto le somiglia – e dunque la scelta di percorrere una strada precisa.

Scrive a suo padre nel 1856: “Le cose scorrono lisce e penso proprio di riuscire nel mio intento: dimostrerò che, benché sia una Alcott!, sono in grado di guadagnarmi da vivere. Adoro questa sensazione d’indipendenza… Non sono abile nei lavori manuali, dunque userò la mia testa come ariete da guerra e mi farò strada nella mischia di questo pazzo mondo”. Sappiamo che l’intento è riuscito oltre ogni aspettativa. Piccole donne, dopo centocinquant’anni dalla sua pubblicazione, è ancora un bestseller.

Virginia Woolf non smetteva un attimo di osservare la realtà e porsi delle domande. Si interrogava sulla scrittura femminile, si chiedeva se per scrivere fosse necessario dimenticare di essere donne; ma anche se fosse la stessa cosa amare un uomo o una donna. È una ventenne che non si sente in fiore quando incontra Violet Dickinson, più grande di diciassette anni, e se ne innamora. Attraverso la metamorfosi della crescita, la seguiamo camminare come se costeggiasse un abisso alla scoperta di un posto per sé. Ecco sì, l’amore vero ci fa entrare in nell’età adulta, un’età di scelte importanti e decisive, di scelte che danno le vertigini.

In Persone Normali di Sally Rooney, Marianne diventa adulta quando capisce che la sua famiglia non ha più niente a che fare con lei, che la famiglia da un certo momento in poi è quella che ti scegli tu. E lei sceglie Connell, il suo grande amore, ma anche il suo più grande amico. Non ci sono categorie nette, forse non sono neanche mai esistite. C’è solo il fatto che quando si sceglie si gira un angolo e qualcosa si perde per sempre. Succede anche quando, come per Ada, si decide di tornare indietro. Si decide di non scappare più e si scopre di essere nate una seconda volta.

gaia manzini

L’AUTRICE – Gaia Manzini vive e lavora a Milano; ha scritto Nudo di famiglia (Fandango, 2009), La scomparsa di Lauren Armstrong (Fandango 2012, selezione Premio Strega) e Ultima la luce (Mondadori, 2017). Ora torna in libreria per Bompiani con Nessuna parola dice di noi.

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