“A otto anni leggevo ‘Piccole donne’ di nascosto, in quanto era libro caldamente sconsigliato nella mia famiglia molto di sinistra, molto femminista, molto fricchettona, perché considerato troppo moralistico, reazionario quasi…
A dieci mi ero messa in testa che come Jo dovevo scrivere in soffitta…”. Su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari parla dell’importanza che nella sua formazione hanno avuto Louisa May Alcott e i suoi personaggi. E in particolare una delle sorelle March: “A ventotto anni capii che stata tutta colpa sua. Che il sogno di fare quello che stavo facendo non sarebbe cresciuto dentro di me, non così profondamente, almeno, non fosse stato per Jo…”

Vi siete mai chiesti se sareste, oggi, la persona che siete, non aveste letto i libri che avete letto? Non intendo quelli dell’età adulta, i libri letti da grandi. Intendo quelli dell’infanzia, i libri che ci hanno formati quando ancora eravamo flessibili e teneri come giunchi, quando la forma del carattere era indefinita e liscia e duttile e la vita non era ancora riuscita a indurire i bordi, a ispessirci dentro il suo calco misterioso.

Ci penso spesso in questo periodo in cui l’isolamento forzato mi consente, se non altro, di tornare a coltivare con la lettura e l’immaginazione un rapporto vigoroso e intenso, quasi selvaggio, come mi succedeva da bambina. Sarei capace di separare, nella persona che sono diventata, come acqua e olio, quello che mi viene dalle esperienze che ho vissuto nella vita reale, delusioni e gioie e amori e dolori, e quello che ho solo immaginato di vivere, leggendo? Credo proprio di no.

Qualche sera fa ho rivisto il Piccole donne del ‘33, quello di George Cukor con Katharine Hepburn nel ruolo di Jo, il mio preferito. A parte il fatto che ho iniziato a singhiozzare molto precocemente, nel momento in cui il vecchio signor Laurence rivela di aver perso una nipotina che gli ricordava tanto Beth – ma forse, come tutti, credo, sono anche un po’ esaurita in questo periodo – mi ha colpita il pensiero di quanto la storia delle quattro sorelle March sia presente dentro di me; quanto mi abbia formata, condizionata, anche se viene da un mondo lontanissimo. Sapevo che era un libro importante nella mia storia di lettrice, ma non immaginavo quanto profondamente avesse messo radici. Nella mia immaginazione, come in quella di milioni di altre bambine – e bambini! insospettabilmente, anche molti bambini – che nell’ultimo secolo e mezzo hanno conosciuto le ragazze March, riunite in un salotto un po’ rattoppato alla vigilia di un Natale di tanti anni fa, a lamentarsi che Natale senza regali non è Natale.

A otto anni leggevo Piccole donne di nascosto, in quanto era libro caldamente sconsigliato nella mia famiglia molto di sinistra, molto femminista, molto fricchettona, perché considerato troppo moralistico, reazionario quasi; attratta non saprei nemmeno io da cosa, forse proprio dal disdoro che lo circondava, lo presi in prestito dalla piccola biblioteca della scuola. Lo leggevo di notte, con la lampadina accesa sotto le lenzuola, e mi ricordo ancora lo sforzo di non piangere – per non far rumore: non singhiozzare, non singhiozzare, per carità! – mentre Jo tornava in ritardo, e tutti l’aspettavano, e la mamma doveva partire per raggiungere il papà ferito… e poi si toglieva il cappello, e si scopriva che si era tagliata i capelli, i suoi bellissimi capelli, anzi: la sua unica bellezza – era questo, forse, a farmi piangere tanto? – per venderli e avere venticinque dollari da consegnare alla mamma. E poche pagine dopo – che colpo basso! – stava piangendo anche Jo, Jo con la sua testa improvvisamente così piccola, tosata di quella gran chioma che immaginavo fulva, lucente, una criniera, e ora non c’era più e lei piangeva, vergognandosi della sua debolezza, e allora piangevo anch’io, non mi trattenevo più, e tanto peggio se mi avessero scoperta a leggere con la lampadina quando l’ora di andare a dormire era passata da un bel pezzo. Mi scoprirono, difatti, e nacque allora in famiglia la mia fama di piagnona, meritatissima peraltro, come confermarono gli anni a venire, e che ancora oggi perdura; e anche se all’epoca lo trovai molto offensivo, oggi a ripensarci rido tanto quanto risero allora i miei genitori, di quella bambina colta in flagrante a frignare nel cuore della notte sui capelli di Jo.

piccole donne

Venerdì 19 febbraio, alle 19, sulla pagina Facebook di “Libri d’asporto”, Ilaria Gaspari presenta il libro “Le nostre teste audaci – Lettere dalla creatrice delle sorelle March” (L’Orma) dialogando con la curatrice Elena Vozzi e con Ilaria Durigon della Libreria delle Donne di Padova

A nove anni, d’estate, al mare, misi in piedi una piccola compagnia teatrale, cooptando mia sorella e le nostre amiche di sempre, oltre a un malcapitato ragazzino che fu costretto a interpretare Laurie; avevo alacremente lavorato all’adattamento di Piccole donne, e naturalmente mi ero tenuta la parte di Jo, gesto di protagonismo decisamente inelegante; ma era tale la mia appassionata identificazione con la secondogenita ribelle (io, che ribelle non lo ero affatto, eppure accanto a lei mi sentivo finalmente libera di rivoltarmi a tutto e tutti, e indomita, avventurosa, riscattavo in un battibaleno le mie timidezze e le paure di bambina ipersensibile e ipocondriaca) che non avrei potuto fare diversamente. E a ben pensarci, l’intraprendenza di vincere la timidezza, e dirigere le mie attrici e il mio unico annoiatissimo attore, e addirittura recitare, ahimè da cani, di fronte a un pubblico di genitori, parenti e amici che ci applaudirono con entusiasmo e forse un poco di sollievo, alla fine, mentre mi sentivo volare dalla gioia, non era mia: era stata Jo a offrirmela, in quell’estate che ricordo per la passione febbrile con cui cercavamo di riprodurre un gelido inverno in Pennsylvania, nella Versilia di centocinquant’anni dopo.

A dieci anni mi ero messa in testa che come Jo dovevo scrivere in soffitta, e avevo cercato in un mare di cianfrusaglie di organizzarmi un piccolo spazio per me, fra le ragnatele e qualche squittio sospetto che finì per atterrirmi e persuadermi che non ero all’altezza della mia eroina. Anche l’idea di un berretto speciale, da mettere apposta per scrivere, come a dire a tutti quanti non disturbatemi, sono al lavoro, mi sedusse per un periodo, ma si consumò nell’attrito con la realtà – non trovavo il berretto adatto, e se lo trovavo mi faceva morire di caldo.

A dodici anni scrissi una poesia (di rara bruttezza, presumo) che oggi chissà dove sarà finita; parlava della fine dell’infanzia mia, di mia sorella e delle nostre amiche; un addio un po’ troppo precoce e artificioso, che difatti era una goffa imitazione di una delle pagine su cui ho versato più lacrime in vita mia: la pagina di Piccole donne crescono (che mi ero nel frattempo comprata nell’edizione economica Newton Compton, con quella carta porosa e quasi bruna) che ospita la poesia di Jo sulle quattro cassettine che, in soffitta, si ricoprono di polvere e dentro hanno tutti gli oggetti delle sorelle March bambine, ora che bambine non sono più, e solo Beth è destinata a rimanere per sempre imprigionata nella ragazzina che è stata, perché Beth, già, se n’è andata, e i versi in cui si parla del suo campanello d’argento che non suonerà mai più per me erano, e sono tuttora, uno dei passaggi più strazianti della storia della letteratura.

Negli anni che seguirono quel goffo tentativo poetico, in effetti, mi sentivo cresciuta: Piccole donne, con tutto il suo ciclo di sequel – Piccole donne crescono, Piccoli uomini, I ragazzi di Jo – lo misi da parte perché ormai mi vergognavo di dire che da grande avrei fatto la scrittrice come Jo. Sostenevo che sarei diventata medico, senza troppa convinzione. Ma a Natale mi concedevo di tornare la bambina che si sognava Jo; guardavo il film e tutte le volte soffrivo per il suo matrimonio con quel noiosetto del professor Bhaer, che certo, l’amava, ma sapeva tutto lui ed era così tremendamente paternalista.

A vent’anni, quando ormai non ci pensavo più, mi capitò una volta di provare la cocente umiliazione che colpisce la povera Meg quando, per far bella figura alla festa, si lascia prestare un vestito e acconciare i capelli, e si sente finalmente uno splendore, ma poi, subito dopo, si sente dire dall’amico di sempre che non sembra più lei; successe anche a me una cosa simile, una volta che mi ero mascherata da quella che non ero, che non sono, e mentre mi sentivo arrossire per la vergogna, capivo che non solo Jo, la ribelle irresistibile che tutte abbiamo desiderato essere, ma tutte quante le sorelle March avevano messo radici dentro di me.

A ventotto anni pubblicai il mio primo romanzo; dovevo tagliare un capitolo e tornai a pensare a Jo, a quando le chiedevano di tagliare un pezzo del suo manoscritto e lei si sentiva come se le avessero chiesto di tagliare i piedi a un suo bambino. E capii, allora, che era stata tutta colpa sua. Che il sogno di fare quello che stavo facendo non sarebbe cresciuto dentro di me, non così profondamente, almeno, non fosse stato per Jo. Non l’avrei desiderato tanto, non con quella passione, se non fossi stata con lei quando scopre che Amy per dispetto ha bruciato il suo racconto – mi andavano a fuoco le guance per l’indignazione ogni volta che lo leggevo – ma anche quando poi Amy la segue sul lago ghiacciato, e lei non la vuol perdonare, e la ignora crudelmente, e il ghiaccio cede, e Amy rischia di rimanere congelata, e allora Jo, l’irruenta, la buona, la selvatica Jo, si spaventa a morte, e piange a dirotto per quello che poteva succedere, e io con lei. Non mi fossi buttata a leggere il Circolo Pickwick solo perché era il libro preferito delle sorelle March; non avessi pensato con tanta intensità a cosa si deve provare a vedere il proprio racconto stampato su un giornale, sia pure con uno pseudonimo. Come succedeva a Jo.

C’era, però, una cosa che non mi riusciva proprio di perdonarle. Era quel suo matrimonio con il pedante, tronfio tedesco. Perché non aveva osato la solitudine, perché non si era spinta a sfidare davvero tutti quanti, a rimanere l’orgogliosa, indomita amazzone che ci aspettavamo rimanesse? Perché non aveva avuto il fegato di strappare la parola zitella al suo significato più tetro, per farne una bandiera, per rivoltare lo stigma come un guanto, per essere spavalda fino in fondo?

Oggi, finalmente, posso darmi pace. Anche per il matrimonio di Jo c’è una spiegazione, ed è una spiegazione incredibilmente pragmatica – e anzi un po’ beffarda, direi. Me l’ha data Louisa May Alcott in persona, in una lettera del marzo 1869:

“Jo sarebbe dovuta rimanere una zitella devota alla letteratura, ma sono stata sommersa da talmente tante lettere di giovani lettrici che mi pregavano entusiaste di farle sposare Laurie, o comunque di farla maritare, che non ho avuto il coraggio di rifiutarmi. Alla fine, non senza una punta di perversione le ho combinato un matrimonio assai bizzarro. Mi aspetto di essere coperta di insulti, ma devo ammettere che la prospettiva mi diverte abbastanza.”

Non è incredibile che il dettaglio che oggi più infastidisce chi legge Piccole donne – il matrimonio di Jo – sia stato inserito nella trama per venire incontro allo scalpitare del pubblico delle giovani lettrici, che soffrivano di saperla zitella? Se oggi siamo così libere da desiderare che Jo non si accasi, pur di farlo, con il primo venuto, il merito, io credo, è anche della testardaggine della stessa Jo March, e della sua creatrice.

L’Orma editore ha appena pubblicato una straordinaria selezione di lettere di Louisa May Alcott, che ci rivelano la donna che si inventò (con l’esplicito intento di dimostrare al suo editore di non essere in grado di scrivere libri per bambini) le quattro sorelle più famose della storia della letteratura per l’infanzia; che somigliano molto alle sorelle Alcott, alla loro infanzia sognante e selvaggia in una famiglia fricchettona – ben prima che si inventasse la parola – con un padre votato a sperimentalismi utopistici e una madre che con gran senso pratico gli impedisce di far congelare le figlie tenendole a vivere in una comune in cui ci si veste solo di lino, anche nell’inverno del New England. Alcott, che cresce frequentando i filosofi trascendentalisti del tempo, Emerson e Thoreau, che cresce abolizionista e suffragista, che fa l’infermiera volontaria durante la guerra di Secessione, la sarta e l’istitutrice per poter mantenere la famiglia, e caparbiamente, ostinatamente sola, lei, senza nessun Bhaer, con la stessa testa dura della sua Jo, fa di tutto per diventare la scrittrice che sente di essere; esige assegni, scrive con tono tagliente, dolce, malinconico o suadente a seconda dell’interlocutore, e sa essere anche sardonica nella sua incredibile, pertinace indipendenza. Come quando manda la seguente lettera a un lontano parente, tale signor Field, editore di giornale, che le aveva categoricamente sconsigliato di tentare la carriera letteraria, spingendosi a prestarle una piccola somma che le permettesse di darsi all’insegnamento:

“Caro signor Field,

tanto tempo fa mi ha prestato $40, dicendomi gentilmente che avrei potuto restituirglieli quando fossi stata ricca sfondata. Poiché inaspettatamente il miracolo è avvenuto, desidero tener fede alla mia parte dell’accordo, e dunque le accludo alla presente il rimborso del mio debito con tanti ringraziamenti. Con affetto, sua

M. Alcott”

Ilaria Gaspari - foto di Giuseppe di Piazza
Ilaria Gaspari nella foto di Giuseppe di Piazza

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).