“Se sono diventata una scrittrice, naturalmente, la colpa è un po’ anche di Jo…”. Questa volta, per ilLibraio.it, Ilaria Gaspari ha riletto “Piccole donne”, il celebre romanzo di Louisa May Alcott, e anche il seguito, “Piccole donne crescono” (in cui “la storia è più complessa, i rapporti fra le sorelle più realistici…”). Ed è stata l’occasione per ricordare un’estate della sua infanzia, un personaggio “irresistibile nella sua irruenza” (“la più scarmigliata e maschiaccia fra le sorelle March”) e per riflettere su un libro sì “estremamente moralistico”, ma allo stesso tempo “rivoluzionario”…
L’età dell’insolenza
Se sono diventata una scrittrice, naturalmente, la colpa è un po’ anche di Jo. Credo che la più scarmigliata e maschiaccia fra le sorelle March sia responsabile di un certo numero di vocazioni letterarie, e non solo; con le sue intemperanze, la sua impazienza e riottosità agli ordini, quella specie di puledro scatenato in abiti di popeline o di mussola o di altri tessuti i cui nomi restano per me misteriosi oggi come lo erano quando leggevo il libro d’estate per trarne una riduzione teatrale, sia stata suo malgrado un modello di comportamento per generazioni di bambine cresciute leggendo Piccole donne. Forse, certo, anche di qualche bambino. Per esempio l’amico del mare chiamato a interpretare Laurie nello strampalato spettacolo che chissà come mettemmo in piedi nell’estate dei miei nove anni: unico maschio in un branco di ragazzine, proprio come nel libro, all’inizio nicchiava, ma ammise alla fin fine che il libro non era poi così male. Certo, però, a pensarci bene forse nemmeno lui si sognò mai di voler ‘essere come Jo’; quindi dico bambine e non bambini, perché dopotutto Piccole donne è un libro del 1868 e rileggendolo oggi questo si sente eccome; è proprio un libro per ragazzine, o almeno è pensato per esserlo. Sono strettamente femminili sia il punto di vista della narrazione che il mondo raccontato dal libro: la guerra di Secessione vista (o meglio, intuita: perché in quell’universo di sole donne arriva solo a ondate, nell’angoscia per gli uomini lontani, nelle calze blu sferruzzate per i soldati) da una casa in Massachusetts, dove quattro sorelle adolescenti restano a casa con la mamma e la domestica Hanna in attesa del ritorno del padre, cappellano dell’esercito nordista. E sono così rigidamente femminili, la voce che l’ambientazione della storia, in uno modo dolente e coercitivo che culmina proprio nel tentativo da parte di Jo, la ribelle, di opporsi alla violenza delle costrizioni sociali che la soffocano; di comportarsi, per puro spirito di contraddizione, da maschiaccio quando ci si aspetterebbe che si adattasse a trasformarsi in una donna.
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Jo è un personaggio talmente irresistibile nella sua irruenza che, senza ombra di dubbio, fra le quattro sorelle March è quella con cui è più allettante e più naturale identificarsi. Perché quando si legge un libro, soprattutto da bambini, succede così: che immedesimarsi senza parsimonia, senza ritrosie e senza falsa modestia sembra la cosa più logica e più dolce del mondo. Almeno, per me questo è sempre stato l’unico modo possibile per leggere; e ora che ci penso, anche per scrivere. E certamente Jo March, avvolta nelle sue mussole un po’ lise – Jo così lontana, nella casa in Massachusetts durante la guerra di Secessione, Jo con la sua soffitta e le mele da sgranocchiare mentre leggeva, Jo con il berretto consunto sulla testa perché nessuno la disturbasse quando scriveva i suoi racconti appassionati e forse neanche troppo belli, ma che importanza ha? – è stata il personaggio in cui mi sono tuffata più in profondità, fra tutti gli eroi della mia infanzia, degli infiniti pomeriggi estivi nel silenzio della campagna e delle sere d’inverno a cercare di dimenticarmi la noia della scuola e della città in cui i bambini devono frequentare corsi di qualsiasi cosa per diventare atletici e creativi nel modo giusto. Non volevo andare a nuoto a disegno a musica e a minibasket; volevo starmene a leggere sul mio letto a castello e immaginarmi di essere in una soffitta, come Jo. Volevo inventarmi delle storie che piacessero solo a me, e fingere di avere un berretto in testa che mi dispensasse dalla scuola e da tutto il resto; come Jo.
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Ma che la Jo di Piccole donne susciti un desiderio di identificazione così appassionato e così impaziente, è anche doloroso, a pensarci bene. Perché dopo Piccole donne, Louisa May Alcott, premiata da un inaspettato successo mondiale, scrisse più di un seguito. E per me bambina, l’idea che esistesse un prolungamento di quella prima parte delle avventure delle sorelle March, che non finisse insomma tutto lì, era la più deliziosa che si potesse concepire. Il seguito aveva tutta la dolcezza delle promesse e delle attese; era l’antidoto alla brutalità della fine; almeno io lo vedevo così, perché ho sempre detestato i finali dei libri. Il seguito voleva dire che quella casa in Massachusetts continuava ad esistere, che le ragazze sarebbero cresciute, che tutti quanti avevano un futuro; che non c’era bisogno di rimpiangere le pagine già lette. Piccole donne crescono è un libro molto più bello di Piccole donne; la storia è più complessa, i rapporti fra le sorelle più realistici. Il senso della vita che incede senza pietà per nessuno incombe su ogni pagina, con una dolcezza che fa stringere il cuore.
Ma è anche un libro tristissimo, Piccole donne crescono; non solo per la morte di Beth, su cui chiunque l’abbia letto ha pianto lacrime amare, ma ancora di più per la fine di Jo. Perché la vita è più crudele con Jo che cresce, di quanto non lo sia con la povera Beth che finisce spezzata come un fiore per una pioggia troppo forte; perché Jo, in Piccole donne crescono e ancora di più nei successivi due seguiti – Piccoli uomini e I ragazzi di Jo – viene domata dalla vita. La sua intemperanza, il suo caratteraccio, il suo desiderio di ribellarsi alle regole in quel suo modo impetuoso si trasformano quando diventa una donna e conosce l’amore quieto e un po’ paternalistico del professor Baer, il personaggio più scialbo e fastidioso della saga delle sorelle March. Diventa un’educatrice, Jo, e smette di correre e di cacciarsi nei pasticci; e a quel punto, l’identificazione con il suo personaggio di adolescente goffa e generosa si rivela in tutta la sua crudeltà.
Quando la vita doma il suo nichilismo, il destino di Jo si fa probabilmente più simile a quello della sua autrice; che, nello scrivere libri volutamente ‘educativi’, conserva solo a tratti la freschezza di un impeto di ribellione, o anche solo di nostalgia. Perché Piccole donne, a rileggerlo oggi, si rivela un romanzo estremamente moralistico, quasi fastidioso. Una parabola anglicana che vuole educare, in maniera anche piuttosto schematica, all’etica del lavoro e dell’efficienza. Alla modestia e alla morigeratezza, che placano ogni possibile conflitto sociale.
Eppure, il voluto puritanesimo di Piccole donne non basta a imbrigliare nella sua noiosa semplicità la vita delle quattro sorelle. I momenti più belli del libro sono quelli riottosi a queste riduzioni al moralismo; sono i lampi di vita delle liti fra sorelle, sono il manoscritto bruciato da Amy per vendetta, le lacrime di Jo dopo che si è tagliata i capelli per offrire al padre malato venticinque dollari che si riveleranno inutili; sono i presagi continui della fine di Beth – l’unico personaggio piatto e monodimensionale che sembra stagliarsi come fosse un ritratto su un medaglione sullo sfondo della vita tempestosa della casa, in un’oscura prefigurazione del suo destino.
Nel crudele addomesticarsi alla vita da cui non sembrano esserci vie di fuga sta tutta la violenza fatale del crescere; e nel dolore che ogni bambina, dopo essersi identificata con la Jo del primo libro, prova a vederla trasformarsi in una moglie obbediente e remissiva, in un’educatrice di sani principi che conserva giusto un pizzico di follia zitellesca, sta forse il vero valore del libro. Solo a condizione di soffrire per la trasformazione di Jo, per la sua rinuncia a una libertà impossibile, si può considerare Piccole donne un libro rivoluzionario, storia di una rivoluzione fallita. Perché la bellezza di Piccole donne è tutta nel bruciore di questa sconfitta: nel dolore dell’insolenza perduta. Nell’affollarsi dei presagi all’ultima pagina del libro, quando le quattro sorelle, ognuna con un tono diverso, si dicono che non sarebbe possibile essere più felici di così, e nel dirlo riescono a fermare l’attimo, ma solo per poco; perché poi crescono.
L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con Etica dell’Acquario.Qui i suoi articoli per ilLibraio.it