La pubblicazione di “Eva dalle sue rovine”, pluripremiato romanzo di Ananda Devi, permette al pubblico italiano di conoscere una delle più prolifiche e importanti scrittrici mauriziane contemporanee, nota per il suo linguaggio volutamente poetico, quasi barocco – L’approfondimento

C’è un certo piacere nel vedere autrici ritenute fondamentali all’estero trovare finalmente spazio (e voce) nelle nostre librerie. E soprattutto vedere che lo fanno grazie a ottime traduzioni (in questo caso di Allegri Giuseppe Giovanni) e al generoso e appassionato lavoro di piccoli editori indipendenti, che prima di ogni altra cosa guardano alla qualità delle loro pubblicazioni.

Eva dalle sue rovine di Ananda Devi

È il caso di Eva dalle sue rovine di Ananda Devi, pluripremiato romanzo uscito nel 2006 e incoronato dal prestigioso Prix des cinq continents de la francophonie, che grazie a Utopia Editore approda finalmente tra le mani di lettori e lettrici per introdurci all’opera di una delle più prolifiche e importanti scrittrici mauriziane contemporanee.

Nota per il suo linguaggio volutamente poetico, quasi barocco per la ricchezza delle immagini, l’opera di Devi si interroga costantemente su questioni fondamentali, come la relazione tra corpo e scrittura, l’uso politico e personale del corpo, il linguaggio, l’identità e la creolizzazione, ma anche il rapporto tra classi sociali, generi e razzismo. Insomma nella scrittura di Devi si trova la quintessenza del discorso intersezionale e decoloniale.

Le sue sono storie dal margine, sia geografico – le storie sono spesso ambientate in quello che viene chiamato Terzo Mondo – che sociale, con personaggi che vivono in quartieri popolari o provengono da classi disagiate. O addirittura sono storie che vengono dal margine del margine, come è il caso di Eva dalle sue rovine ambientato a Troumaron, un sobborgo povero di Port Louis di cui uno dei protagonisti della storia, Sadiq, dirà:

“Il quartiere è il nostro regno. È la nostra periferia nella periferia, la nostra città nella città. Port Louis ha mutato faccia, le sono spuntati lunghi denti e torri più alte delle sue montagne. Ma il nostro quartiere, lui, non è cambiato. È la trincea estrema”.

Eva dalle sue rovine è prima di tutto la storia di Eva. Eva che è il centro del desiderio degli uomini, la donna da salvare, la donna che prova inutilmente a salvarsi, la scintilla dei conflitti, la forma tangibile della colpa.

Eva si muove tra le strade di Troumaron alla ricerca di un’emancipazione che si rivela impossibile quando la nascita marchia il corpo con il destino sociale. D’altra parte quando “le persone si guardano, prima di vedere una faccia, vedono un’etichetta appiccicata a vita” e da quella etichetta non ci si libera (quasi) mai, anche se si è disposti a sacrificare la cosa più importante: il proprio corpo.

Eva lascia infatti che il suo corpo sia preda dall’aggressione maschile nella speranza che tramite questo atto supremo possa trascendere la propria miseria. E in un certo senso lo fa nel momento in cui dichiara che pur violato il suo corpo non “è colonizzato”. Ma questa resistenza politica poco può di fronte a un’invasione che non si limita alla barriera del corpo e che avanza irrefrenabile portandosi via tutto con sé: la speranza e la vita degli altri.

Eva si sacrifica per se stessa (“Si è volutamente anestetizzata la carne per non dover percepire la vita e rimpiangerla.“), ma il suo sacrificio finisce per ricadere sulla vita delle altre persone: l’amica amata Savita, Sadiq, Clélio e in fondo su quella dei giovani di Troumaron.

Ananda Devi sceglie di raccontare questa storia di miseria e sopruso dando voce proprio a loro – Eva, Savita, Sadiq, Clélio –, intrecciando i loro monologhi personali a quello di una voce fuori campo che si fa quasi coscienza collettiva. Il suo è un romanzo volutamente polifonico, perché ognuno di questi personaggi è allo stesso tempo individuo singolo e parte di una collettività organica e magmatica, a cui è preclusa quasi ogni forma di emancipazione (alcuni ce la fanno, ma sono pochi).

“Noi figli di Troumaron, noi ce ne sbattiamo delle religioni, delle razze, dei colori, delle caste, di tutto ciò che divide il resto della gente di questo cazzo di paese, noi, figli di Troumaron, apparteniamo a una sola comunità, che è universale, quella dei poveri e degli sbandati e questa, credetemi, è la sola identità che conta”.

Ma si tratta anche di un romanzo che ha il ritmo serrato di una tragedia shakespeariana. E non è un caso che ogni capitolo si apra col nome del personaggio che parla. Quella di Eva e Savita è una tragedia annunciata alla nascita, annunciata dal loro essere donne in un mondo di lupi. E, se il destino dei maschi è quello di lottare perpetuamente, di trincerarsi e di assaltare l’esterno, vittime sì, ma mai totali, quello delle donne sembra essere un destino ancora più difficile da evitare, perché “l’eredità dei sessi non è la stessa. Non nasciamo con gli stessi fardelli” e, al fardello della miseria, per le donne si aggiunge anche quello del loro genere.

Eva dalle sue rovine è un romanzo durissimo, un romanzo in cui a ogni riga si tocca il corpo tumefatto e violato di Eva, il desiderio irrefrenabile di Sadiq, la rabbia di Clélio e l’innocenza spezzata di Savita. La lingua è viscerale, pregna di sangue e di sperma, di violenza e di disperazione. Ma è anche una lingua viva, piena di immagini, in cui risplendono momenti di quiete e amore, dove si intreccia il creolo mauriziano al francese e all’inglese.

Non è un caso che proprio la lingua sia uno dei protagonisti del libro. La lingua, infatti, è lo spazio in cui si incontrano le persone, lo spazio della memoria, quello dove si trovano le tracce della colonizzazione passata e presente (la lingua creola), ma anche lo strumento attraverso cui Sadiq esprime le sue emozioni e salva la sua storia e quella di Eva dall’oblio.

“Con un pennarello indelebile, sui muri della mia stanza, scrivo velocissimo, come un pazzo, come uno fuori di testa, preso dalla voglia di raccontare tutto prima che mi dimentichino. È una storia frammentaria e zoppicante, fatta di amarezza e di collera, ma è la sola che conosco. La vita di persone come me, così semplici da cadere a pezzi ancor prima di essersi costruite, così insicure da dileguarsi ancor prima di aver concluso qualcosa. La cui speranza si disperde al mattino come polvere intorno ai piedi. La cui morte non aspira a dare linfa alle stelle ed evo- cherà sempre e solo lo spazio nudo di una tomba. Ecco perché le barriere iniziano dai loro occhi.

Chiunque entrerà nella mia stanza si troverà di fronte a un altro enigma. Ma, perlomeno, ho detto quel che avevo da dire”.

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