Storie per vivere, storie per sopravvivere alla Storia. “Anime erranti”, il nuovo romanzo di Cecile Pin, in parte ispirato alla vicenda della sua famiglia materna, racconta la diaspora vietnamita in prima persona, con uno stile letterario alto e contemporane. Un destino, quello dei “boat people”, che ha coinvolto, in più ondate migratorie nell’arco di dieci anni, circa 800.000 persone. E in cui non si contano i morti…
Per capire di cosa parla davvero il nuovo romanzo di Cecile Pin, Anime erranti, pubblicato da Einaudi nella traduzione di Benedetta Gallo, dobbiamo partire dalla fine.
Niente spoiler, solo una breve annotazione di Jane, Jane Mai Van Leung, nel marzo 2023.
L’altro giorno stavo leggendo The White Album di Joan Didion. La sua raccolta di saggi più conosciuta è Verso Betlemme, ma personalmente preferisco The White Album, che si concentra sulla California tra fine anni Sessanta e inizio Settanta. Ogni volta che lo leggo mi viene voglia di tuffarmi in piscina, con l’ombra delle palme come rifugio dal sole cocente. Il primo saggio, quello che dà il titolo alla raccolta, inizia con una frase che è diventata iconica: «Noi ci raccontiamo delle storie per vivere», una frase la cui fama ha oscurato il vero significato. Il saggio in questione è stato scritto subito dopo l’omicidio di Sharon Tate per mano dei seguaci della setta di Charles Manson. Didion descrive una Hollywood paranoica e pessimista, una Hollywood che ha appena preso coscienza della propria mortalità, dove droghe e alcol abbondano.
Jane è nata e cresciuta a Londra, e, apprendiamo, alla fine del patto narrativo con il lettore, è anche colei che ha deciso di scrivere questo romanzo, per raccontarci una storia.
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Solo che questa storia non viene raccontata perché non ne possiamo fare a meno, ma per altre ragioni – come spiega Jonathan Gottschall nel suo saggio capitale L’istinto di narrare.
Secondo la teoria di Gottschall siamo infatti, noi esseri umani, creature bizzare, “storytelling animals”. Un comportamento che ci mette nelle condizioni di vivere la nostra esistenza passando più tempo in un mondo finzionale rispetto a quello reale.
Lo facciamo per molte ragioni, biologiche, psicologiche, sociologiche e dunque evolutive.
Ma Jane ci dice che non è questo il caso. La storia della sua famiglia, la storia di questo romanzo, inizia nel 1978.
La guerra in Vietnam è finita, ma per i vietnamiti inizia un lungo periodo di tormento. Ahn, ragazzina di sedici anni e maggiore di sei fratelli, è costretta dai genitori a prendersi in carico l’incolumità di Minh e Thanh in un viaggio, che li porterà, attraverso un mare affamato di corpi, prima a Koh Kra, in Thailandia, dove sono testimoni di orrori indicibili (stupri ripetuti e omicidi), prigionieri di un improvvisato campo profughi e poi a Hong Kong, questa volta rifugiati UNHCR di un altro campo profughi, dove la vita è durissima ma meno pericolosa.
I genitori con gli altri tre fratellini più piccoli avrebbero dovuto sopravvivere al mare anche loro, e riunirsi ad Ahn, Minh e Thanh in un qualche luogo, in attesa di essere ricollocati e chiedere asilo negli Stati Uniti, dove il padre di Ahn aveva un fratello maggiore. Ma non è mai accaduto. I genitori di Ahn non sono riusciti a mantenere la promessa. Sono stati ingoiati dalle onde, insieme ai fratelli più piccoli. Metà della famiglia è dispersa.
Un destino, quello dei “boat people”, che ha coinvolto in più ondate migratorie nell’arco di dieci anni circa 800.000 persone. Non si contano i morti della diaspora vietnamita.
Ahn, Minh e Thanh sono dunque rimasti soli e dopo numerose peripezie approdano a Londra, in un appartamento troppo piccolo, con il loro inglese rudimentale, l’ostilità di una città troppo diversa dal paese di origine, dalla lingua e dalla cucina materna, dagli odori, dalla gente che erano abituati a frequentare. E Ahn fa di tutto per garantire una vita decente ai fratelli: lavora in fabbrica, poi in uno studio contabile, si ammazza di fatica, inizia a fare discorsi più utili a una madre che a una sorella, e comunque mai utili per sé stessa.
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«Com’e andata oggi?» chiedeva sempre. Spesso Minh si limitava a fare spallucce e dire «bene», mentre Thanh esclamava «guarda cosa ho fatto» e si precipitava a mostrarle la sua ultima ciotola di cartapesta, o il mappamondo colorato, fiero del lavoretto del giorno. Non pensavano mai di chiederle della sua, di giornata. Anh ormai era la stella polare, la presenza più solida delle loro vite, e per questo doveva a tutti i costi stare bene, e desiderava anche lei che loro lo pensassero.
Ma spesso il passato e il ricordo di una famiglia mutilata, e con esso il peso della rabbia sociale che i tre fratelli si portano addosso, morde e impedisce anche solo di pensare a un futuro migliore.
Jane, che è la figlia di Ahn, ci racconta tutto questo perché alla fine la famiglia in qualche modo ce l’ha fatta. E scrive dunque non perché non ne può fare a meno, ma perché il racconto addomestica, rende la memoria tollerabile, rende la Storia tollerabile.
In questo senso, e torniamo a ciò che Jane scrive alla fine del romanzo, “ci raccontiamo storie per vivere”. A volte la realtà è talmente indicibile che non lascia spazio ad altre azioni che non siano quella di raccontare la verità, ma addomesticandola attraverso la fiction.
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Il romanzo di Cecile Pin è in parte ispirato alla storia della sua famiglia materna ed è un romanzo stilisticamente molto complesso. La lingua attraversa piani narrativi che si adattano al contesto che descrive. Un narratore esterno, una lingua più asciutta, piana, quasi di cronaca, mentre racconta le circostanze storiche che i tre fratelli attraversano.
Una prima persona, una lingua poetica e lirica negli intermezzi in cui fa parlare Dao, uno dei fratellini morti che continua a seguire con apprensione le vicende dei famigliari rimasti in vita. E qui probabilmente l’autrice deve molto della sua ispirazione letteraria a Ocean Vuong (Brevemente risplendiamo sulla terra) e alla scrittura di Julie Otsuka (Venivamo tutte per mare).
E di nuovo, infine, una prima persona con uno stile letterario alto e contemporaneo quando interviene Jane, narratrice di Anime erranti, collante della storia, testimone ultimo delle cose che vanno raccontate.
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