È un quadro di un’umanità deflagrata, quello dipinto da Anna Siccardi ne “La parola magica”, ed è la rappresentazione di una società arida e indifferente che non offre più sostegni a cui aggrapparsi – L’approfondimento

I protagonisti de La parola magica di Anna Siccardi (NN) sono incapaci di azione: le loro anime sono imprigionate tra un prima e un dopo, sospese in un soffio che è fatto di malinconie e nostalgie, delusioni e rimorsi.

Si chiamano Irene, Anna, Chiara, Carlo, Leo, e i dodici episodi che compongono l’opera li vedono alternativamente presenti, intrecciati per uno sguardo o per la vita: dodici brevi capitoli di un racconto universale, in una Milano che non offre aiuto, ma soltanto isolamento.

Anna Siccardi La parola magica

I dodici passi degli Alcolisti Anonimi, con cui Anna Siccardi apre la narrazione, accomunano tutti, anche quelli che non bevono, che non si lasciano svanire in un bicchiere, con la vergogna addosso, in un bar qualunque. Perché tutti sono malati di un male che si chiama estraneazione, senza relazioni sane, naufraghi dentro se stessi: persone spaccate dentro, alla ricerca di un torpore, di una possibile tregua, di un percorso di purificazione.

Hanno perso quello che erano prima, professionisti che si ritrovano in camere d’albergo, imbruttiti dalle droghe e dalle scosse del terremoto, figlie al cospetto di genitori anaffettivi, sorelle e fratelli che si ritrovano fragili e sgomenti di fronte alla morte, mogli tradite, padri che non riescono a costruire un rapporto vero con la propria famiglia, madri che non sanno come riparare un errore. Sono amori che finiscono perché esauriscono le storie da raccontarsi, relazioni sprecate che non conoscono più la pietà o il perdono.

È un quadro di un’umanità deflagrata, quello dipinto ne La parola magica, ed è la rappresentazione di una società arida e indifferente che non offre più sostegni a cui aggrapparsi.

Perso nella propria leggerezza, ognuno scopre quanto è facile lasciarsi, negarsi agli altri, rifugiarsi nelle critiche, nel buio, nel rancore, in un bicchiere.

“È così che parla il vuoto, che si aziona il richiamo: la distanza tra sé e gli altri bevuta via in un sorso. Ma è davvero così vicina la felicità?”.

L’alcolismo è la malattia della relazione, e per questo è inguaribile. Ma non è l’unica soluzione al dolore.

Le compulsioni hanno facce innocenti: si trova riparazione anche in una serie tv, che porta stordimento, episodi uno dietro l’altro, per ubriacarsi, non pensare alla propria realtà, e al domani. E poi gli inventari, liste su liste per fingere una ragione, un controllo, per trovare una bussola che invece non c’è.

Si scopre una vicinanza solo in luoghi sospesi: la zona franca di una stanza in una clinica, la membrana del dolore di un lutto, quella bolla di follia temporanea, che porta a sentirsi circondati di bontà e di sospiri, e che, finiti gli obblighi delle esequie, si spegne, abbandonando al vuoto il dolore delle parole non dette.

Ci si accompagna trascinandosi non in salvo, ma in fuga, o rivolgendosi a un potere superiore, perché è un contatto, almeno lui. E anche pregare è perdere ogni consapevolezza della realtà,  “a un certo punto non sai più dove sei”.

In questo continuo cercare una cura, tra solitudini, droghe, alcol, sarcasmi, preghiere, pianeti e bracieri, si nasconde la tentazione più grande, dimenticare le proprie ferite.

La parola magica di Anna Siccardi racconta con crudezza e con lucidità il male del nostro tempo: la paura di noi stessi.

“È tutto qui?” chiese Giacomo. “Un’allergia dell’anima?”. Carlo guardò suo figlio e per la prima volta fu certo di averne una,
“Sì” disse. “Direi che è tutto qui”.

 

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