Da Simonide di Ceo a Paul Celan, Anne Carson brucia i secoli in una digressione appassionante sul valore della poesia. La poesia è uno spreco di parole? E cosa rimane di quelle parole sprecate, nel contesto umano dove ogni cosa è vissuta in termini economici? Questo è il cuore del saggio “Economia dell’imperduto”, che esce in Italia per la nuova casa editrice Utopia, mentre torna in una nuova edizione “Autobiografia del rosso” – L’approfondimento (e un estratto)

La celebre vicenda di Tristano inizia come il mito di Teseo: l’eroe deve liberare la propria regione, la Cornovaglia, da un pesante tributo imposto dal re di un altro Paese. Curiosamente, finisce all’incirca allo stesso modo, con l’accordo su un determinato segnale (vele bianche/vele nere, per comunicare una notizia, o, in questo caso, l’arrivo dell’amata Isotta) che viene manipolato dall’esterno, e non arriva quindi a destinazione. Anzi, il fraintendimento sul codice stabilito incide in modo irrimediabile sul corso degli eventi, portando alla morte dei protagonisti.

Ripreso in molteplici forme, il romanzo cavalleresco di Tristano e Isotta trova uno spazio nella poesia di Paul Celan, così come la storia di Teseo compare in alcuni frammenti del greco Simonide di Ceo: è passando per questo primo legame, il topos della vela sbagliata, che è insanguinata per Celan, non bianca ma rossa per Simonide, che Anne Carson brucia i secoli in una digressione appassionante sul valore della poesia.

La poesia è uno spreco di parole? E cosa rimane di quelle parole sprecate, nel contesto umano dove ogni cosa è vissuta in termini economici?

Questo è il cuore di Economia dell’imperduto, primo titolo della vasta produzione saggistica di Anne Carson a uscire in Italia, per la nuova casa editrice Utopia, nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli e con una prefazione della poeta Antonella Anedda.

Copertina Economia dell'Imperduto Anne Carson

Nella linea del tempo che si disegna sui quaderni delle elementari, Simonide si trova in piedi su un’intersezione. Vissuto nel V secolo a.C., si muove nel regno della xenìa, per cui lo scambio passa attraverso il dono e forma un legame profondo tra quelle due persone ma, allo stesso tempo, entra nel regno della moneta, che – e qui Carson interpella Marx- è l’esatto opposto del dono, è alienazione.

La moneta rende il resto una merce, scindendo ogni connessione. La sua poesia può essere compensata con un invito alla tavola del committente e può essere compensata con il denaro, può essere quantificata e valutata. Portandosi dietro una fama di avaro, Simonide si mantiene in equilibrio tra queste due realtà, tenendo una cassa per ciò che è visibile – il soldo – e una cassa per ciò che non si vede – la χάρις, la grazia, tutto quello che la società si sta per lasciare alle spalle.

A Simonide risponde Celan che, a sua volta, in un tempo e in un luogo lontanissimi, si crea uno spazio nella contraddizione: poeta rumeno di origini ebraiche, vivrà per lo più in Francia, ma scriverà sempre in tedesco, lingua della creazione ma allo stesso tempo la lingua dell’oppressione, la lingua di chi ha arrestato i suoi genitori nel 1944 e li ha internati in un campo di concentramento in Ucraina.

Celan abita l’indicibile, e per poter scrivere deve reinventare il proprio linguaggio. Carson invita di nuovo Marx, protagonista non ufficiale in costante conversazione con gli altri due, e la continua traduzione che Celan deve fare di se stesso si affianca a quella forma di traduzione che è lo stesso denaro, nel momento in cui crea un’estraneità. Si riapre quindi quell’abisso, quella distanza da colmare che sfida il poeta a ricostruire un dialogo, pure in mancanza di un vocabolario comune, sfruttandone anche le pause e le sospensioni. Nella terra dove sono passati i nazisti, distruttori della parola, Celan si trova davanti a un cratere.

Economia dell’imperduto raccoglie più epoche in un unico tempo, e le fotografa per restituirci una riflessione che parte dalla poesia, abbraccia l’esistenza per poi ritornare, arricchita di qualcosa che è più del soldo, alla poesia. L’abilità di Simonide nel guardare contemporaneamente avanti e indietro si riflette nella sua opera, che Carson traduce e analizza, a partire dalla narrazione dell’invisibile, fino alla fissazione, su pietra, di ciò che è perduto. Se le sue parole possono essere contate, e alla sua vita quindi può essere assegnato un valore, la memoria, quell’impalpabile “di più” che scaturisce dai versi incisi nei suoi epitaffi, potrebbe essere, secondo questa logica, un plusvalore.

Anche in Celan si riconosce l’incomunicabilità di ciò che non è visibile, a cui si può tendere muovendosi verso l’altro, percependone pienamente l’alterità; la poesia è quello stesso movimento che si trova a suo agio nel vuoto, e che da quel vuoto fa scaturire il ricordo. Richiamandoli con la parola, come negli epitaffi greci, si risvegliano i morti.

Entrambi i poeti, a loro modo, riplasmano il mondo attraverso la negazione, vera possibilità creativa perché non esistente in natura – di nuovo, la vela di Teseo che per Simonide era non bianca – facendo rispecchiare l’una nell’altra l’assenza e la presenza, e sfidando in questo modo l’oblio. Simonide utilizza il “no” per narrare, Celan lima le sue parole come un incisore: nulla viene perduto, ma Carson ci ricorda di non considerarla un’espressione scontata. E le parole imperdute, che precedono quello che raccontano, giungono gratuitamente.

Anne Carson è una poeta e classicista che muove lo sguardo in ogni direzione, e organizza il sapere contro qualsiasi gerarchia, offrendolo con generosità.

È da poco uscita in Italia, per La nave di Teseo, anche una nuova edizione di Autobiografia del rosso, nella storica traduzione di Sergio Claudio Perroni, l’opera considerata il suo capolavoro, in cui i pochi frammenti rimasti del poeta Stesicoro viaggiano fino al New Mexico, e Gerione e Eracle riprendono vita.

Copertina_Autobiografia del rosso Anne Carson

Seguire Anne Carson nei suoi percorsi, tra passato e presente, apre una serie di botole inaspettate, che potrebbero farci scendere sotto terra e invece si ribaltano, e si spalancano sul cielo; con una lingua elegante, e un’ispirazione vivace e controllata, gestisce un materiale immenso ritrovando sempre la strada di casa; da Danae che si rivolge a Perseo addormentato a Rosa Luxemburg, da Parmenide a Bergson, dall’antica Grecia al Novecento, la sua scrittura è un dono vero; la sua compagnia illumina il vuoto e ci insegna che del nulla non si deve aver paura.

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un estratto da Economia dell’imperduto:

LA GRAZIA E LA LEPRE

«La forma di merce» non è una condizione semplice. Frantuma e disumanizza gli esseri umani. Fa sì che una persona assuma un’identità duplice per cui le qualità naturali sono disgiunte dal suo valore economico, la sua identità privata da quella pubblica*. Questi sono i termini con cui Marx descrisse gli effetti della mercificazione sui cittadini dell’Europa borghese. Mi piace pensare che Simonide rappresenti una manifestazione, precoce ma severa, dell’alienazione economica e della «duplicità» che la accompagna. Nato in una società in cui il tradizionale scambio di doni coesisteva con il commercio di beni e con una fiorente economia monetaria, Simonide era consapevole della disgregazione di quel particolare periodo storico, in equilibro sulla linea di confine tra due diversi sistemi economici, e quindi adottò uno sguardo incontaminato. Rivolse lo sguardo in entrambe le direzioni.
È Platone, nell’Ippia maggiore, a dirci come Simonide giunse ad Atene: «Ipparco, il più vecchio e il più saggio dei figli di Pisistrato, trovò il modo di avere Simonide di Ceo sempre al suo servizio grazie alla concessione di alti salari e di preziosi doni».
Salari e doni: la moneta ha due facce. Essendo la realtà duplice, Simonide si mosse su entrambi i suoi fronti. Di qui, per esempio, la storia delle due casse.
«Dicono che Simonide avesse due casse, una per grazie e favori, una per le sue parcelle. Quando qualcuno andava da lui per chiedere un favore, il poeta mostrava le casse e le apriva: quella dei favori era sempre vuota, l’altra era piena di denaro. E in questo modo Simonide si liberava di chi gli chiedeva un dono».**
Le due casse stanno una di fianco all’altra nella vita di Simonide così come doni e denaro coesistono nella società del suo tempo. Il loro allineamento costituisce una sorta di esperimento economico e di pensiero. Per i greci la parola charis (χάρις, «grazia, favore»), che dà nome al vuoto della prima cassa, era una parola chiave dell’economia del dono nel periodo arcaico e classico, e certificava «un libero e mutuo scambio» tra uomini che si riconoscevano un legame di dipendenza reciproco e rituale.*** Così come xenos e xenia, la parola charis è reversibile da un punto di vista semantico e tra le sue possibili accezioni lessicali include «favore, dono, benevolenza concessi o ricevuti, pagamento, rimborso, gratifica, piacere offerti o restituiti, carità, grazia, Grazia». In altre parole, charis è il nome generico per l’intero tessuto di scambi che costituisce l’economia del dono e, allo stesso tempo, per la pietas che ne garantisce l’esistenza. Aristotele, nella sua analisi sul denaro nell’Etica nicomachea, inserisce un nostalgico saluto alle dee chiamate Charites: «Questo è il motivo per cui erigono un tempio alle Charites in un luogo in vista: perché possa esserci un reciproco dare. Questa infatti è l’essenza della charis: la necessità di contraccambiare una gentilezza ricevuta e quella di prendere l’iniziativa di compiere gesti gentili».

*Löwith (1993), pp. 93-95.
**Bell (1978); MacLachlan (1993).
***Kurke (1991), p. 67. Sul concetto di charis: Compagner (1988), pp. 77-93; Hands (1968), pp. 20-38; Herman (1987), pp. 41-48 e p. 129; Hewitt (1927), pp. 142-161; Humphreys (1978), pp. 31-75; Löw (1908); MacLachlan (1993); Morris (1986), pp. 1-17.

(continua in libreria..)

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