Solo a uno sguardo superficiale, con lo spettacolo “Bidibibodibiboo” Francesco Alberici ha voluto mettere in scena una storia esemplare su lavoro, mobbing e precariato, o una riflessione sulla tirannia del tempo…

La scelta e la sorpresa. La promessa o la fregatura. Come l’azzardo in gioco di una una nota trasmissione televisiva, o quelle che ci arrivano ogni giorno da una grande azienda non precisata, è la scatola (il pacco, natalizia quotidiana presenza) il luogo concreto e simbolico della decisione (apparente?) d’acquisto o la scommessa in un (miracoloso?) cambiamento. Premio di seduzione, open secret, black box e vaso di Pandora, l’involucro segna bene il confine di quell’orizzonte dell’attesa che sempre più oggi si assottiglia, e ci assottiglia, invadendo e corrompendo di merci la nostra possibilità apparentemente illimitata di immaginazione consumistica, e consumata. Libertà illusoria e paradosso della scelta, sensazione di poter decidere tutto, di disporre, come per incantesimo (zucche che si trasformano in carrozze) del nostro tempo e del nostro desiderio, nella vita, e così nella fruizione di uno spettacolo (netflixizzato). Ma non è così, esattamente.

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Un librettino, a mo’ di prologo in sala, ci viene consegnato (con raccomandazione di restituirlo), prima misura/esperienza di un tempo (quello dell’inbox, di uno scambio di mail) che esercita già la sua sottile tirannia. E la sensazione è già di essere eterodiretti e inghiottiti da un count down (abbiamo 2 minuti) che ci chiede di leggere le istruzioni, di firmare il patto (diabolico) per stare al gioco, e alla sua rappresentazione che, “anche se basata su fatti reali, è un frutto della pura immaginazione” (da subito la narrazione s’interroga e ci interroga sul suo statuto incerto e sulla pressione che ci assilla)

Sul palco (scene concettuali di Alessandro Ratti) c’è una teoria di scatoloni (dono e condanna, segreto o pacco bomba, lunch box, ma anche possibili urne elettorali, forse funerarie: insieme magazzino e skyline), che svelano man mano altre “scatole”, quella di una scrivania (la postazione del lavoro, cubicolo esistenziale della produttività), quella del pianoforte (la prospettiva di una vocazione artistica, che risuona quasi sempre sacrificata o mancata), quella della macchinetta di snack e bevande (focolare dell’ufficio, e correlativo oggettivo del sistema capitalistico), quella del corpo della Legge (miraggio farsesco di una possibile tutela dal Potere).

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Poi ci sono le parti, a teatro come nella vita, i ruoli in cui provano a inscatolarti, con cui gli altri – noi per metà complici – formano, informano e deformano quello che credi o pretendi di essere: attore e autore, regista e tecnico, fratello e figlio, dipendente e artista, genitore e dirigente, (servo o padrone)… Le scatole cinesi di aspettative e aspirazioni cui è fatta la nostra identità. E sono i meccanismi del potere, la dinamica della competizione e la logica della performance che governano, sempre di più, questi ruoli, che compenetrano e pervadono, talvolta in maniera subdola, i diversi piani: famiglia, lavoro e società. Istanze dall’aspetto accogliente, mascherate magari dalle migliori intenzioni: l’amore materno è però talvolta ricattatorio, iperprotettivo, proiettivo e incanalante, la solidarietà fraterna rivela una componente di invidia, risentimento e rivalità, l’azienda un’attitudine radicata allo sfruttamento e una dimensione violenta e spietata, camuffata da termini eufemistici e ipocrisia maternalistica. Ma anche il mondo del teatro, l’espressione artistica di sè, uno spazio di autenticità, possiede pure il suo lato oscuro, e non è così un luogo salvo, immune da disillusione, fallimento e spietatezza. Difficile, ma necessario, e cogente, nel periodo post-pandemico che ha rivelato alcuni aspetti perversi del sistema e le fragilità del singolo, ristabilire allora priorità e responsabilità, sembra dirci questa messa in scena e a nudo, evitando magari di recitare il ruolo compiaciuto della vittima, quello che viene più facile, e provando invece ad ascoltare il proprio daimon, dargli voce e spazio (e musica, quella che infine risuona per davvero nella sala).

Francesco Alberici, con un cast di attori all’altezza (oltre a lui, già meritato vincitore di un premio Ubu under35 nel 2021, ci sono Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsu, Daniele Turconi) firma, autore e regista, uno degli spettacoli migliori visti in questo inizio d’anno.

Solo a uno sguardo superficiale si tratta di mettere in scena una storia esemplare su lavoro, mobbing e precariato oggi, e neppure è una riflessione sulla tirannia del tempo, sul fratello (interiore o reale poco importa) che vorremmo poter salvare, o ancora sul momento rivelatore dell’esperienza pandemica, anche se tutto questo c’è, e molto altro. Sfuggendo abilmente al ricatto di un contenutismo didascalico, Alberici evita con intelligenza uno spettacolo banalmente ideologico, di pura denuncia, appiattito su un piano e una tesi. Mette in scena invece le contraddizioni della società e le sue in primis, istituisce una con-fusione veritiera fra fallimenti personali, aziendali e della società (straordinaria la scena in cui madre e superiora aziendale si sovrappongono), intraprende, con una scrittura complessa e strutturata in cui il metateatro e l’autofiction non sono esercizi di stile e narcisismo ma mezzi di svelamento e denudamento profondi, un percorso di autentica interrogazione, originale, e capace di farci guardare allo specchio. Così la riflessione sul tempo e sui tempi, sulla famiglia e sul lavoro, su ingiustizia e responsabilità, pur non regalando formule magiche o soluzioni a portata di mano,  difficilmente non lascia un segno in chi guarda, fra inquietudine, riconoscimento e messa in questione.

Da sempre autore e attore fra i più interessanti del nostro panorama, con Bidibibodibiboo (citazione di Maurizio Cattelan e del suo scoiattolo suicida, in uno spettacolo che dell’arte contemporanea fa tesoro di efficacia, ironia e icasticità), avvalendosi di uno stile recitativo la cui naturalezza poetica è debitrice del teatro di Deflorian/Tagliarini, segna una tappa importante di una crescita artistica notevole. Ecco uno spettacolo che s’inserisce a pieno titolo in un filone del teatro internazionale fra i più vivaci e capaci di toccare e interpretare il presente (da Sergio Blanco a Milo Rau), costituendone non l’epigono nostrano, ma una voce che può aspirare a quei livelli e farci respirare lo stato dell’arte scenica, restituendoci fiducia in una dimensione di ricerca e rivelazione che può accadere ancora nello spettacolo dal vivo.

Il testo, frutto di un laboratorio di alta formazione in periodo di lockdown (École des Maîtres), e già vincitore del premio Riccione, è prodotto da Officina Scenotecnica di Scarti, dopo una bella e felice tenitura al Piccolo di Milano (20 febbraio-3 marzo, visto il 27 febbraio) meriterebbe di essere adottato e accolto con orgoglio ed entusiasmo da molti teatri, italiani ed europei. Un’occasione per recuperarlo è il 26 giugno a Gualtieri (Reggio Emilia), e il prossimo anno in tournée.

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