“I gufi dei ghiacci orientali” (in uscita il 30 ottobre) è il resoconto del lavoro sul campo di Jonathan Slaght nell’Estremo oriente russo, alla ricerca dei gufi pescatori. Un racconto empatico e profondo sulla fragilità della natura e sulla tenacia che serve per trasformare le proprie passioni in progetti che proteggano il mondo…

Viaggio al termine della Russia

Ho sempre creduto che il birdwatching fosse una passione quantomeno bizzarra, noiosa di sicuro. Per questo, quando ho letto il prologo de I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan Slaght (Iperborea, traduzione di Luca Fusari) ero curiosa di capire con quali storie l’autore fosse riuscito a riempire le oltre trecento pagine del suo libro. Inizio col dirvi che ci è riuscito, e anche molto bene. 

I gufi dei ghiacci orientali

Il prologo scrive così: “​​La massa arruffata, del colore dei trucioli di legno, ci guardava diffidente con occhi giallo elettrico. Non capimmo subito di che specie si trattasse. Era senz’altro un gufo, ma di dimensioni inaudite, grosso quanto un’aquila ma più pennuto e corpulento, con ciuffi sproporzionati sopra le orecchie. Si stagliava nel grigio fosco del cielo invernale e sembrava fin troppo ingombrante e buffo per essere un vero uccello, come se qualcuno avesse appiccicato in fretta e furia manciate di penne addosso a un cucciolo d’orso e poi avesse appeso il disorientato animale a un albero”.

La “massa arruffata” è un gufo pescatore di Blakiston.

I gufi dei ghiacci orientali, infatti, è il resoconto delle quattro stagioni di ricerca sul campo portate avanti da Jonathan Slaght e dalla sua squadra. L’obiettivo del loro lavoro era quello di scovare i gufi pescatori ed etichettarli, in modo da tracciarne gli spostamenti e scoprire la natura del loro habitat. Il fine ultimo della missione, poi, era quello di proteggere dalla distruzione e dal disboscamento i luoghi di riproduzione e caccia di questo gigante volante e, in definitiva, di proteggere la stessa sopravvivenza della specie. 

I gufi pescatori della Russia erano vulnerabili. Per una specie naturalmente a bassa densità di popolazione e dalla riproduzione lenta, ogni danno su larga scala o a lungo termine alle risorse del territorio poteva provocare un rapido crollo del numero degli esemplari, com’era avvenuto con la controparte giapponese”.

“Controparte giapponese”, perché l’intero lavoro di ricerca si svolge nell’Estremo oriente russo, più precisamente nella zona del Litorale. Nel 2005, Slaght si era laureato in Scienze naturali alla University of Minnesota con una tesi sugli effetti del disboscamento sugli uccelli canori del Litorale. Dopo la Laurea, il suo desiderio era quello di impegnarsi in un progetto di dottorato proprio in quella stessa regione.

Ma che cos’è quella regione, che cos’è il Litorale?

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Ci troviamo in “un artiglio di terra che affonda nel cuore dell’Asia nordorientale e si affaccia sul Mar del Giappone. È un angolo remoto di mondo, non lontano da dove Russia, Cina e Corea del Nord confinano in un garbuglio di montagne e filo spinato”.

La missione di Slaght e dei suoi compagni, in particolare, partiva dal bacino del fiume Samarga, l’area più a nord del Litorale. È un luogo unico quello, “l’ultimo bacino idrografico del territorio ancora privo di strade”. Lì si trova uno degli unici due villaggi presenti nei 7280 chilometri quadrati del bacino, Agzu.

Agzu non è solo l’insediamento umano più a nord dell’intero Litorale, ma è anche il più isolato. “Sorge in riva a un affluente della Samarga, ha circa 150 abitanti, quasi tutti di etnia Udege, ed è rimasto indietro nel tempo”. Ecco, questo è il punto di partenza di Slaght, della sua squadra e del suo libro. Ed è anche il punto di partenza di più di una difficoltà.

Il gufo pescatore di Blakiston, infatti, si trova più facilmente in inverno, quando sono visibili le impronte che lascia nella neve. Si avvicina al fiume per catturare il suo pasto, i salmoni, nei pochi punti in cui la superficie dell’acqua non è ghiacciata. Durante la sua caccia lascia dietro di sé segni della sua presenza.

Per questo, Slaght ci porta nell’Estremo oriente russo con il freddo invernale, tra inondazioni, tempeste, un fiume ghiacciato che sa essere vita e morte insieme, tecnologie difettose, veglie notturne a svariati gradi sotto zero e decine di postumi da sbronza dopo aver bevuto alcol etilico di scarsa qualità con local che non accettano che la bottiglia resti piena.

Jonathan Slaght, foto di Sergey Avdeyuk

Jonathan Slaght, foto di Sergey Avdeyuk

Così, leggendo I gufi dei ghiacci orientali ci addentriamo in una terra aspra e ostile, conoscendone gli abitanti, la natura, le storie e la Storia. Slaght è una guida straordinaria e un narratore eccezionale, capace di inserire nel racconto della sua ricerca anche le profondità di una terra comprensibilmente poco narrata.

Scrive l’autore: “Io, straniero in un territorio rimasto isolato dal mondo esterno fino agli anni Novanta, ero abituato a fare la parte dell’extraterrestre. Alla gente piaceva sentirmi raccontare com’era in realtà la «Santa Barbara» che vedeva in tv e sapere se tifavo per i Chicago Bulls – due simboli culturali americani diffusissimi nella Russia degli anni Novanta – e adoravano sentirmi tessere le lodi del loro remoto angolo di mondo. Ad Agzu, però, qualunque visitatore era una mezza celebrità. Alla gente non importava che io venissi dagli Stati Uniti e Sergej da Dal’negorsk: erano entrambi posti esotici ed entrambi offrivamo un diversivo per la serata, ed eravamo facce nuove con cui bere”.

Come scrive Helen Macdonald sul Guardian, “Slaght è una guida meravigliosa alla realtà del lavoro sul campo, un’attività segnata da prove e tribolazioni che vi ispireranno e vi prosciugheranno, corroderanno la fede nella vostra causa e indurranno ampi sbalzi d’umore”. In effetti, leggere della tenacia con cui Slaght dà vita e forma al suo progetto è commovente. Ma I gufi dei ghiacci orientali, l’avrete intuito, non è “solo” il resoconto di un lavoro di ricerca.

Nelle sue pagine incontriamo cervi che stanno annegando, un’agenzia di intelligence russa, dei pescatori alla deriva persi in mare aperto, un eremita che crede nel teletrasporto e vive in una capanna in una centrale idroelettrica abbandonata e un uomo deciso a vendicarsi dei gufi pescatori dopo aver perso un testicolo a causa degli artigli di uno di loro. La passione dell’autore per questi luoghi, la stessa che lo ha portato a imparare il russo e a viaggiare dagli Stati Uniti alla fine dell’est russo per poterlo studiare, è palpabile in ogni parola.

“Vado nell’Estremo oriente russo a studiare il gufo pescatore”. “Che follia!”, ci verrebbe da rispondergli. Eppure, è grazie a follie come questa che alcuni pezzi di mondo riescono a non scomparire. La ricerca di Slaght non ha solo un significato scientifico, letterario e personale, ma ha un profondo senso morale.

La biologia della conservazione aiuta a salvare il mondo, o almeno una parte di esso. Ed è per questo che I gufi dei ghiacci orientali sa essere anche una profonda riflessione sulla fragilità della natura, portata su pagina con ironia, umanità e con tutta la precisione di un ricercatore.

Alla fine della lettura, il birdwatching vi sembrerà una passione divertente e fortemente desiderabile. E, se doveste appassionarvi, sul sito di Jonathan Slaght troverete video, foto e registrazioni audio dai suoi lunghi mesi di ricerca.

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