“Tutti i racconti” di Roberto Bolaño, compresi i testi inediti de “Il segreto del male”, sono finalmente in libreria. Per gli appassionati dell’opera dello scrittore cileno è l'”evento letterario”, ma anche un fatto pericoloso, che li costringe di nuovo a ficcare la testa nel pozzo. Il rischio è di entrare in un libro che ha la forma di un corridoio buio. Un corridoio in cui ciascuna delle porte conduce, di nuovo, nei territori di quell’ossessione che è tutta la letteratura di Bolaño. Il luogo che costudisce il segreto del male e quello in cui si fanno le poesie. Un abisso dal quale non si esce se non commossi e, ancora una volta, contagiati…

Allarme rosso, bolañisti. Stavolta Adelphi l’ha combinata grossa. Il folto popolo di devoti al culto di Roberto Bolaño, poeta y vago (il suo biglietto da visita nel 1988), lo sa fin troppo bene: la pubblicazione di Tutti i racconti, nelle leggendarie traduzioni di Ilide Carmignani e di Barbara Bertoni, comprensive del finora inedito in Italia Il segreto del Male (cioè i diciassette racconti postumi), oltre a essere probabilmente l’uscita letteraria dell’anno, del lustro e del decennio, rappresenta, nella migliore delle ipotesi, un attacco personale alle nostre tiepide esistenze, nella peggiore, la diffusione di un contagio irrimediabile che trascina nei territori dei sogni e delle battaglie perse in partenza, quel piano inclinato che conduce “alla rovina, alla follia, alla morte”.

Roberto Bolaño Tutti i racconti

Nella convinzione che il tempo lenisse le ferite di un amore disperato, un amore che non dà e non chiede tregua alla sua ossessione, un amore che non sa far altro che dare dei colpi che pure ricevi con gratitudine, pensavamo di guarire lentamente, pensavamo di tornare alle circostanze di una vita serena, di una vita ordinaria. E invece no, Adelphi ti dice: “non puoi”. Perché proprio ora, Adelphi, tentarci con il precipizio? Perché farci rimettere la testa nel pozzo? Bolaño, voglio dire, come costruisce i suoi personaggi, costruisce i suoi lettori: il che, in questo caso, è pericolosissimo, trattandosi di detective perduti o suicidi, o di esseri al di là della vita e della morte immobili su una panchina a fumare e a chiedersi se detective o suicidi forse non siano la stessa cosa.

Adelphi, che a volte a me appare come una donna fatale che conosce tutte le possibilità e tutte le varianti, questa austriaca vestita da francese, mi sembra che proprio attraverso questo libro si stia adoperando deliberatamente per costruire un mondo di gente che insegue il fondo della notte, che cammina sui viali dai quali non scappa nessuno, che è disposta a perdere tutto (ma l’amore, quello mai). Gente che mantiene una strana predisposizione a vivere anche nei siderali cunicoli tra buchi neri, quelle strade buie, in cui però si sentono distanti suoni di risate, di cui si compone l’universo Bolaño.

2666 di Roberto Bolaño

Io per dire, che neppure sono un bolañista eroico, di quelli finiti a perlustrare certe province messicane, da quando so che Tutti i racconti è in uscita ho un buco nel cervello, come un programma in background, da cui esce, contro ogni mia lucidità, un popolo di figure singolari.

Per molto più del tempo adeguato a un essere umano che deve, non so, pagare delle bollette, mi scopro a contemplare pugili ubriachi che discutono delle figure di Lichtenberg, spacciatori di quartiere col temperamento di poeti simbolisti, killer che uccidono per dovere e citano il conte Lautréamont per passione. Chiudo gli occhi e vedo un bambino mostruoso che “passeggiava nel deserto, mangiando scorpioni e lucertole e non dormiva mai”. Vedo un certo Alberto, vedo il suo coltello. Penso a un tipo che “non voleva conciliare l’inconciliabile, come è di moda adesso”. Penso a Udo Berger, fluente in strategie per giochi da tavolo e strategie per la propria distruzione.

Penso alla madre della poesia messicana chiusa in un cesso. Non penso mai, neanche per sbaglio, a Octavio Paz. Penso molto a Lalo Cura. Non dimentico mai, neanche per un istante, i volti di Arturo Belano (“Fra questi alberi che ho inventato| e che non sono alberi| ci sono io”) e di Ulises Lima, che “viaggiava da una parte all’altra| dei sogni,| come un lombrico,| trascinando la sua disperazione,| mangiandosela”.

Penso a Pepito Tequila e a Lisa Underground. Penso a Laura Jáuregui, che poteva essere un’amazzone, ma si accontentò di essere esperta in disamore. Mi chiedo se tutta la carta consumata da Roberto Bolaño non sia la risposta malinconica di un pavone all’affermazione di una ragazza sicura di non amare più Arturo Belano – “che Dio ti confonda!” – perché si può conquistare una ragazza con una poesia, ma non si può tenerla con una poesia. Mi dico che, in fondo, non importa.

Quando provo a scacciare questi esseri immaginari, allora mi visitano Postumo, che ora sono certo fu gladiatore, poi Archiloco, poi Billy the kid, “che si giocava la vita per denaro”, Arthur Rimbaud, “che camminava solo nella notte”. Ecco Alfonsina Storni, Jorge Cuesta e Violeta Parra, ecco il loro coraggio. Ecco Burroughs, Philip K. Dick e Roberto Matta, epurato dal surrealismo, che fondò un movimento letterario composto da un singolo partecipante, lui. Li accompagna Ludwig Wittgenstein, falegname e idraulico. Mi guardo le mani e mi chiedo se questa mano sia una mano o non sia una mano, come consigliava di fare Bolaño.

Le rare volte in cui riesco a dormire sogno Dino Campana “nell’ora in cui la nebbia non si è ancora dissolta”. Sogno Roque Dalton, mi perdo nel suo sogno, “il sogno dei coraggiosi che erano morti per una chimera di merda“. Sogno la fine del mondo e so che l’unico essere a cui è concesso vederla si chiama Franz Kafka.

puttane assassine roberto bolano

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Se deve essere delirio che lo guidi la stella di Joaquín Font, che finì in manicomio con dignità e non smise per questo fastidioso inconveniente di cercare. E allora mi torturo: non capisco perché Bruno Montané, che ha un nome da indio, finisca nei Detective selvaggi col teutonico nome di Philippe Müller, salvo notare – e la tortura è doppia, come ho fatto a non accorgermene prima? – che il suo nome è Bruno Montané Krebs. Verifico le pubblicazioni accademiche di una rispettabile biologa. Leggo Juan Villoro, leggo Jorge Volpi, leggo Rodrigo Fresán, leggo di certi scherzi. Leggo Cortázar, il migliore. Leggo Arlt, leggo dello scrivere come infilarsi una croce nella mascella. Leggo Borges. Borges, che scriveva di un uomo dietro il cui volto non c’era nessuno e le cui parole, “fantastiche e copiose”, erano un sogno sognato da nessuno. Mi appunto: “Eccolo!”.

Leggo almeno un paio di libri in una lingua che neanche conosco. Scopro che León Bolaño, che fu camionista e fu pugile a cui fu chiesto un anticipo sull’eredità, è stato fiero del figlio per il suo coraggio nel chiamare la gente huevones.

Cerco riviste fantasma, come l’irrecuperabile Revista interactiva Nomedites, nº 6, México D.F., 2006, su cui sarebbero state trascritte le lettere inviate da Roberto Bolaño a Mario Santiago Papasquiaro, poeta e monumento. Autore – leggo in Jeta de santo – di una poesia che inizia dicendo “Me cago en Dios| & todos sus muertos” e si conclude parlando “del sommesso e molteplice rumore” di due lacrime nel deserto, nel mare, “y en mì mismo”. Mi ricorda qualcosa. Dimentico Laura Jáuregui, ma non le sue labbra.

Leggo una lettera: “ho scoperto che TUTTO il mio teatro l’ho fatto perché Mario Santiago recitasse la parte principale, perché lui recitasse la mia parte, fosse il protagonista dei miei sogni, bello, no?“. Mi dico che neanche questo importa. Cerco Reinventar el amor, 1976: copie vendute – secondo il suo editore Juan Pascoe – quasi nessuna. Cerco una foto di una calle Bucarelli in bianco e nero, di una calle Bucarelli fantasma, con una scritta fantasma su un muro fantasma: “Que Bolaño se vaya a Santiago, y que Santiago también”.

notturno cileno roberto bolano

Dopo aver risposto a un collega che mi raccontava di uno screzio tutt’al più burocratico, come se fosse una cosa normale, che c’è un momento per recitare poesie e un momento per fare a pugni, al fondo della disperazione, prego, io, un senzadio, la Virgen de Guadalupe di intercedere per me presso un “Dio incomprensibile, con gesti incomprensibili, rivolti a creature incomprensibili”. E poi, sconfitto, mi rivolgo al nume di Nicanor Parra, l’antipoeta amato dal nostro Bolaño, e penso, officiante d’un mistero, “di mungere una mucca e poi buttarle il suo latte in testa”. Direte: e chi se ne frega delle tue bieche manie? E qui, come si suol dire, casca l’asino. Non è mica un fatto privato. Lo si può desumere, credo, da quanto ha spiegato Alfredo Zucchi meglio di chiunque altro, in un testo, Da Menard a Belano, storia di un’ovvietà, che ogni tanto sparisce, partecipe di vicende di fantasmi. La questione è una di quelle questioni metafisiche che diventano negli scrittori che fanno le loro cose con la devozione dei santi questioni narratologiche.

Bolaño digerisce prima Borges e le sue distinzioni tra forma e caos, ma si appunta qualcosa che ha a che fare con la ripetizione. Poi digerisce Cortázar, che vedeva realtà e finzione come fuse assieme e rompe la separazione tra la forma romanzo e la forma racconto. Da qui, a pancia piena, Bolaño crea una letteratura in cui tutte le carte (ordine/disordine, racconto/romanzo, realtà/finzione, forma chiusa/forma aperta) sono mescolate, una letteratura che tende “al calderone o alla camera magmatica”. “Uno degli elementi più caratteristici dello scrittore cileno”, scrive Zucchi, “è la circolazione, all’interno della sua opera, di temi, di personaggi, se non proprio di intere e conchiuse narrazioni – che si trasferiscono da un libro all’altro con la necessità dei fluidi”.

Attratti, per un moto inerziale, dal pozzo che è la letteratura di Bolaño, esserne contagiati, uscirne mescolati, uscirne come parte integrante delle sue finzioni biografiche, dunque è un effetto inscritto nel testo, che risulta dal testo. Un effetto secondario per Bolaño, centrale per noi, divenuti nient’altro che oggetti inseriti in un sistema di circolazione. Per questo, nonostante sia il bel volume che abbiamo tra le mani grazie all’opera meritoria della L.E.G.O. S.P.A., stampato nel marzo 2025, Tutti i racconti non ha affatto la forma del libro, ma ha la forma del corridoio. Un corridoio buio. Un corridoio pieno di porte che conducono tutte allo stesso punto. Un luogo pericoloso dove l’orrore si aggiunge all’orrore come l’infinito si aggiunge all’infinito.

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Fortunatamente, le porte più importanti hanno un nome e un cognome. Si chiamano Ulises Lima e Arturo Belano, alter ego di Mario Santiago e Roberto Bolaño, il suicida e il detective, che appaiono, mascherati o meno, nella maggior parte dei racconti.

Leggere Tutti i racconti vuol dire poter entrare nella letteratura di Bolaño – essere catapultati nel moto di circolazione di tutta la letteratura di Bolaño – da ciascuna di queste porte. Ognuna di queste porte, però, conduce sempre in quello stesso posto. Il che spaventerebbe chiunque, ma non il bolañista che in questi territori è abituato a trovare l’avventura. Qui, per lui, c’è solo una porta.

I detective selvaggi Bolano

C’è una porta principale, una porta che val bene il rientro nel delirio (e vale il libro), ed è a pagina 52. Si chiama Morte de Ulises. Ci troviamo di fronte a un saluto che ha il sapore di un cerchio che si chiude. Un unicum dentro un universo che tende all’incompletezza.

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Forse Adelphi non voleva ferirci, ma offrirci un ultimo regalo, per quanto doloroso. Belano ci aveva già salutato in margine a 2666 (“E questo è tutto, amici. Ho fatto di tutto, vissuto di tutto. Se ne avessi la forza, mi metterei a piangere. Vi dice addio Arturo Belano”). Ora, dando la mano a Belano, possiamo salutare Ulises Lima. “Belano, il nostro caro Belano, torna a Città del Messico”, come non ebbe la forza di fare Bolaño – il Messico senza Lisa non lo convinse. In quelle strade si accorge di aver visto tutto, inutilmente. Ha qualche sorpresa. A un certo punto pensa alla vita di Ulises, “una serie di sbronze senza fine nelle quali ha lasciato la sua impronta, come se i bar e le stanze dove Ulises Lima si è sentito male e ha vomitato fossero i diversi volumi della sua opera omnia”. Se ne avessimo la forza, ci metteremmo a piangere.

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Resta un punto da chiarire. In quale luogo conducono tutte queste porte? Ma è chiaro: al deserto, l’altro mare, il luogo dove sta il segreto del male, che è anche il luogo dove si fanno le poesie.

Perché è lo stesso posto? In che senso? Nello stesso senso per cui l’esistenza di un suicida e quella di un detective potrebbero, o non potrebbero, battere le stesse strade. In Tutti i racconti la risposta più completa la trovate in Letteratura + Malattia, pagina 636, in fondo. Bolaño, se glielo avessero chiesto, avrebbe tagliato corto, dicendo che la cosa è semplice: “è meglio imparare a leggere che imparare a morire“, come ha scritto una volta. In questo periodo penso molto a questa frase.

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